percorsi di recupero urbano

Nelle metropoli indiane la street art è politica

L’ultimo distretto artistico creato dalla fondazione St+Art India è nato a Chennai, nella baraccopoli di Kannagi Nagar. Ma questa è solo la più recente delle iniziative ideate dalla fondazione che vuole usare l'arte di strada per riscrivere il rapporto tra società civile e spazi pubblici, favorendo un nuovo senso di comunità

di Cristina Piotti

Una creazione di A-Kill, a Kannagi Nagar a Chennai.

2' di lettura

In mezzo a un gruppetto di baracche scrostate dello slum di Kannagi Nagar, nella metropoli indiana di Chennai, si staglia un palazzo color pesca, pitturato di fresco. Un gigantesco murale ritrae una donna in sari che tiene per mano sua figlia. I loro piedi sono immersi in basse onde nere, ma sopra le loro teste spunta il sole, volano uccelli bianchi, spuntano iris rossi. Harbouring Hope (nutrire la speranza), l'opera firmata dall'artista indiana Kashmira Sarode, è un omaggio a questo quartiere, nato dal trasferimento delle popolazioni colpite dallo tsunami del 2004, dove oggi vivono oltre 80mila persone. È l'ultimo distretto artistico creato dalla fondazione St+Art India, nata nel 2014 con l'obiettivo di usare l'arte di strada per riscrivere il rapporto tra società civile indiana e spazi pubblici, favorendo un nuovo senso di comunità.

Curatrice e co-fondatrice di St+Art India, una delle realtà artistiche più importanti e innovative del subcontinente, è la romana Giulia Ambrogi, 36 anni, ex registrar del MAXXI: «Dalla mostra itinerante Indian Highway, approdata a Roma nel 2011, è nato il mio incontro con l'artista Hanif Kureishi e con gli altri cofondatori Arjun Bahl, Akshat Nauriyal e Thanish Thomas. St+Art India è frutto di un'idea comune, per noi l'arte deve essere infusa di elementi sociali, di valore politico, di spirito individuale e collettivo», racconta a IL. Il primo passo è una piccola, rivoluzionaria iniziativa nel villaggio urbano di Khirki, a Sud di Delhi, trasformato a colpi d'arte distopica e d'avanguardia. Il successo li convince a tentare il primo festival di arte pubblica di Delhi. Nel 2015, sempre nella capitale indiana, arriva il progetto che li ha resi celebri, Lodhi Art District, realizzato in un ex quartiere residenziale britannico, fatto di casette basse e cortili raccolti, trasformato in un museo a cielo aperto popolato da ritratti formato cartoon, riproduzioni di pattern di tessuti tradizionali e opere stilizzate contro i cambiamenti climatici. «I nostri progetti sono sempre site specific, così da permettere alla narrativa di interagire con storia, architetture e spazi locali».

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Altri distretti artistici targati St+Art sono nati nel nuovo centro dell'high-tech Hyderabad, negli slum di Mumbai, negli agglomerati urbani della vacanziera Goa. Il team ha portato a termine imponenti progetti landmark, come il volto di Gandhi sulla sede della Polizia della capitale indiana, e iconiche installazioni temporanee, come i tentacoli gonfiabili verdi avviluppati su Jindal Mansion, quartier generale dell'omonimo tycoon dell'acciaio. Diventata fondazione e supportata da istituzioni, ambasciate e patroni di punta, St+Art India ha organizzato festival e interventi nel mastodontico carcere di Tihar, tra i container di Tughlakabad, nella comunità transgender di Calcutta, tra i pendolari di Bangalore e nel cuore della “smart city” Coimbatore. «Per noi è fondamentale studiare il tessuto urbano e appoggiarci ad autorità locali, evitando di favorire quei processi di speculazione e gentrificazione che abbiamo visto in atto in Europa, da Soho a Kreuzberg. Portando la street art in aree marginalizzate o ferocemente urbanizzate, possiamo mettere in luce questioni fondamentali nell'organizzazione socio-politica della città stessa. Con buona pace di chi non la considera arte».

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