Circolazione dei dati e servizi Web

Nello scontro Meta-Ue l’ultima parola spetterà al mercato

di Giovanni Comandé

(AFP)

4' di lettura

Sta facendo scalpore la comunicazione obbligatoria di Meta (ex Facebook) alla Sec statunitense. In essa si indica che 1) se il carattere evolutivo delle normative impone in quali circostanze possono essere trasferiti e trattati dei dati personali «critici per le nostre operazioni», 2) se non siamo in grado di trasferire dati tra le regioni del mondo in cui operiamo o 3) se vi sono restrizioni nella condivisione dei medesimi tra i nostri prodotti e servizi, ciò «potrebbe influenzare la nostra capacità di fornire i nostri servizi, il modo in cui forniamo i nostri servizi o la nostra capacità di indirizzare gli annunci, il che potrebbe influire negativamente sui nostri risultati finanziari».

Gli investitori devono sapere i rischi che una azienda quotata corre sul mercato anche se questi sono rischi giuridici. Ha dunque ragione Meta a segnalare che, se non vi sono (le sue) condizioni per continuare a fare le cose che fa come le vuole fare, i suoi servizi potrebbero mutare se non sparire su alcuni mercati con implicazioni finanziarie per i suoi investitori.

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Ci si chiede allora perché le sue azioni non siano crollate in Borsa. La risposta sta nel vero tema: quali sono i valori di riferimento per la circolazione globale dei dati?

Sotto attacco è il sistema di valori e di mercato del quadro normativo Ue. Il suo “unilateralismo” regolatorio con effetti in Paesi terzi non solo fa proselitismo, ma ha un impatto potenzialmente procompetitivo. Le normative citate da Meta sono state promulgate con chiari obiettivi di apertura del mercato, affermando il ruolo chiave che la protezione di certi diritti fondamentali stanno assumendo nella società dei dati.

L’ultimo documento della Ue sul punto è la Dichiarazione europea sui diritti e i princìpi digitali per il decennio digitale. In essa la Ue si impegna ad «adottare le misure necessarie per garantire che i valori dell’Unione e i diritti delle persone riconosciuti dal diritto dell’Unione siano rispettati online così come offline; – promuovere un’azione responsabile e diligente da parte di tutti gli attori digitali, pubblici e privati, per un ambiente digitale sicuro e protetto; – promuovere attivamente questa visione della trasformazione digitale, anche nelle relazioni internazionali».

Il capitolo II impegna a «garantire che le soluzioni tecnologiche rispettino i diritti delle persone, consentano l’esercizio di tali diritti e promuovano l’inclusione». Il capitolo V conferma che «ogni persona ha diritto alla protezione dei propri dati personali online. Tale diritto comprende il controllo su come sono utilizzati i dati e con chi sono condivisi».

Inevitabile che le normative segnalate come «problematiche» da Meta possano entrare in rotta di collisione con i suoi interessi economici.

E allora piuttosto che reagire allarmati dal rischio di non avere più in Europa, come li conosciamo, servizi come Facebook e la pubblicità mirata che essa permette, dovremmo riflettere se le affermazioni di Meta non segnalino opportunità giuridiche piuttosto che rischi giuridici. Ciò sarà possibile a condizione che le imprese, della Ue ma non necessariamente, siano in grado di offrire servizi analoghi a quelli oggi esistenti, ma nel pieno rispetto di questi obiettivi sempre più spesso non solo declamati nella Ue, ma iscritti in testi normativi coercibili anche con significative sanzioni.

Solo se le normative esistenti e future saranno accompagnate dall’effettivo emergere di prodotti e servizi innovativi e competitivi capaci di rimanere a esse ligi allora l’effetto dell’unilateralismo regolatorio di Bruxelles sarà doppio: garantirà ai suoi cittadini il rispetto dei valori condivisi e offrirà a livello globale un benchmark assiologico, basato sul rispetto della persona, l’inclusione e la sostenibilità ambientale. Se questo poi significherà di rivedere al ribasso le stime finanziarie di alcune imprese per rispettare i diritti fondamentali a fianco dell’emergere di nuove realtà imprenditoriali sarebbe un successo di mercato.

Al contrario, il j’accuse di Meta alle norme europee indicherebbe una follia normativa se non fosse possibile applicare la proclamazione normativa nel mercato, se cioè non fosse un problema di modello di business ma di impraticabilità tecnologica e normativa attestata dal non emergere di realtà imprenditoriali sostenibili. Fin tanto che non sia dimostrato che il rispetto delle tutele Ue non sia possibile, rimarrà un’inutile verità dire che certe norme ci impediscono di fare ciò che si fa come lo si fa.

Delle due l’una: o strumenti come le clausole contrattuali standard, che oggi sono la zattera di salvataggio dopo l’affondamento del Privacy shield per la condivisione di dati Usa-Ue, sono in grado di rispettare spirito e lettera delle norme europee e allora la libera circolazione dei dati europei impregnerà di sé anche quella di oltre oceano o, se non sono protettive, precluderanno lo sfruttamento dei dati che, sebbene redditizio, non sarà possibile legalmente per la Ue. Se tutti ce ne facessimo una ragione forse una regola globale per i flussi transfrontalieri emergerebbe prima.

Professore ordinario di Diritto privato comparato, Scuola superiore sant’Anna , Pisa

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