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Nello stile Brioni la passione per le eccellenze del suo Abruzzo

Storie e segreti di uno dei marchi storici del menswear italiano secondo il chief master tailor, Angelo Petrucci, che da 38 anni veste anche le celebrità: «Il legame con Penne è viscerale. Qui la nostra storia e il futuro, che passa anche dai nostri giovani»

di Chiara Beghelli

una fase di produzione di una creazione Brioni

5' di lettura

«Un abito è pulsante. Esprime il valore umano di chi lo ha confezionato, è un riflesso del suo stato d'animo». Angelo Petrucci non usa metafore. Per lui, chief master tailor di Brioni, marchio di menswear sartoriale formato a Roma nel 1945 e in cui lavora da 38 anni, si tratta di realtà quotidiana. «Avevo 13 anni e mezzo quando nel 1985 sono entrato nella scuola di sartoria di Brioni. Sono bastati due giorni per innamorarmi del mestiere», racconta dal suo ufficio nella manifattura di Penne, il paese di 11mila abitanti sulle colline alle spalle di Pescara dove Nazareno Fonticoli e Gaetano Savini decisero di aprire la loro manifattura nel 1959, per confezionare gli abiti venduti nella loro boutique romana.

Angelo Petrucci, chief master tailor di Brioni

Petrucci da 30 anni è quasi perennemente in viaggio, ha incontrato 44 capi di stato, decine e forse centinaia di attori e persone celebri, le loro foto tappezzano la parete dietro la sua scrivania: «Quello del sarto oggi è un mestiere tutt'altro che noioso, può essere pieno di opportunità, per imparare, per viaggiare». Lo sanno bene le 800 persone che oggi lavorano nel “factory atelier” di Penne, nata come formula pionieristica e insieme una scommessa: «I fondatori diedero vita al pret-a-couture, parcellizzando il lavoro del sarto e della bottega, e affidando ogni singola fase di lavorazione a una persona. Che così è diventata la migliore in quella fase - dice Petrucci -. Ed è una scommessa vinta, perché poteva essere molto più semplice in quegli anni aprire una manifattura appena fuori Roma. Occorrevano almeno cinque ore per arrivare a Penne, e non c'era certo l'autostrada». Ma Fonticoli, che era nato a Penne, conosceva bene il patrimonio del suo paese: «L'Abruzzo vanta la maggiore concentrazione di sarti in proporzione agli abitanti. In passato i sarti andavano nelle case contadine, restavano lì qualche mese e cucivano il guardaroba per una ventina di persone. I migliori sarti di Roma, di Milano, hanno spesso origini abruzzesi».

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Clark Gable nel 1960 nell’atelier Brioni a Roma

E quando l'azienda crebbe, aveva già accesso a tutta la manodopera necessaria per sostenersi. Non solo: quando negli anni Settanta la manodopera iniziò a scarseggiare, perché i giovani emigravano o preferivano lavorare a salario in fabbrica, Brioni lanciò un programma per richiamare in Abruzzo i sarti che lo avevano lasciato. Ne tornarono 130. Oltre mezzo secolo dopo, il legame di Brioni con il suo territorio è ancora «viscerale», come lo definisce Petrucci: «I giovani vogliono venire a lavorare da noi proprio perché hanno visto il rapporto che abbiamo instaurato con i collaboratori, e da generazioni. Vogliamo che stiano bene, per noi il benessere è fondamentale perché come dicevo poi si ripercuote sul prodotto: per questo, per esempio, abbiamo un accordo con l'asilo nido qui vicino, propone orari adatti ai nostri collaboratori, che quando hanno una pausa vanno a salutare i loro bambini».

Una dimensione quasi familiare per un marchio che ha una storia e dei numeri da brand globale: dal 2012 Brioni, infatti, fa parte del gruppo Kering (il secondo più grande al mondo con 20,4 miliardi di fatturato nel 2022), che lo volle come primo marchio di menswear di lusso proprio negli anni in cui stava rafforzando la sua presenza nell'industria. Ha circa 200 punti vendita nel mondo, di cui 55 boutique proprie, un e-commerce, seguiti profili social, e soprattutto abita i guardaroba di numerose icone del nostro tempo. Un legame che ha radici nel nome stesso del marchio, quello delle isole croate di Brijun (Brioni, in italiano) al largo delle coste istriane, negli anni Cinquanta meta amata dal jet-set di allora dopo che il maresciallo Tito vi costruì la sua residenza estiva. La storica sede romana di via Barberini 79 (oggi la boutique Brioni si trova in via del Babuino, più funzionale e più amata dai turisti) si trovava strategicamente a due passi dalla Via Veneto della Dolce Vita. E con gli ambassador Brioni – Brad Pitt, Jude Law, Anthony Hopkins, Pierce Brosnan, Matt Dillon, solo per citarne alcuni - oggi si potrebbe comporre una seconda “Walk of Fame” sartoriale.

Tom Cruise in Brioni

«Brioni è stato un pioniere da molti punti di vista - prosegue Petrucci -: è stato il primo marchio di moda maschile a organizzare una sfilata, a Palazzo Pitti nel 1952, portando la seta colorata nei tuxedo. Nel 1959 abbiamo inventato i trunk show, con la collezione “Grand Tour Brioni” che veniva portava nelle grandi città degli Stati Uniti, ma anche le sfilate nelle navi da crociera. Abbiamo lavorato con tessuti e tecniche innovative. Negli anni Sessanta, per esempio, con il tessuto celanese, una sorta di acetato molto funzionale per il confort di clienti che amavano viaggiare. Nel 1968 ci contattò un cliente californiano, che voleva viaggiare solo con la sua macchina fotografica. Realizzammo così la prima “travel jacket”, con tasche per riporre i propri effetti e una passaggino sulla spalla per apporre la tracolla della macchina. Oggi fa parte delle nostre icone, ne produciamo ancora, pensandole per gli strumenti di oggi. E i nostri pantaloni Journey, grazie a tessuti tecnici e una lavorazione particolare, hanno la stessa comodità di quelli di una tuta. Li abbiamo realizzati anche per il figlio di un cliente, un bambino di tre anni».

Qualche anno fa Brioni sperimentò una sorta di smart mirror, ma più per gioco che per convinzione che la sartoria potesse passare da un algoritmo: «Ognuno di noi ha sua una morfologia, una postura. Se vedi lo stesso modello di collezione a Londra, a Miami, a Los Angeles, visivamente apparirà identico, ma indossandolo si avranno tre sensazioni diverse – spiega -. Il nostro lavoro è ottimizzare un abito su ogni cliente, tenendo conto del suo stile di vita, del fatto che passa molto tempo seduto oppure in piedi, ma anche del clima del suo Paese: a Miami, per esempio, c'è molta umidità e dobbiamo tenerne conto se non vogliamo che il filo di seta delle nostre impunture produca uno sgradevole effetto di “bolle”. E dalla nostra banca dati delle creazioni su misura, riusciamo a ricavare anche delle indicazioni su modifiche del corpo in un determinato Paese, abbiamo visto che ogni 10 anni circa si verifica un cambiamento».

Brad Pitt è un ambassador Brioni e nel 2021 ha creato una capsule, BP Signature

Il su misura non è solo una questione di fit o di tessuti. È anche saper consigliare un cliente: «Mi trovavo nel nostro negozio di New York, per una presentazione di una campagna con Matt Dillon. Ascoltai la conversazione di un signore con uno nostro addetto alla vendita, chiedeva un black tie per andare all'opera. Non ho potuto fare a meno di avvicinarmi e spiegargli che certo, avrebbe potuto indossare il black tie, ma che un white tie sarebbe stato molto più indicato. Ci ringraziò e spiegò poi ai suoi amici cosa aveva appreso. Non si tratta solo di vendere, ma di fare cultura del vestire».

Oggi l'innovazione passa anche dalla protezione di preziose tecniche del passato, come l'antico ricamo vestino, diffuso nella zona, e quella degli arazzi di Penne, due eccellenze artigiane che rischiavano di sparire e che invece oggi impreziosiscono le creazioni Brioni. «In un abito bisogna stare come a casa propria. Per questo lo costruiamo sulle persone e insieme a loro, sul loro corpo ma anche sul loro stile di vita il clima del loro Paese. Perché un conto è vendere, un conto è far felici le persone».


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