Neuroscienze alleate per riprogettare gli spazi
Gli studi condotti dal team guidato da Rizzolatti con Lombardini22 esplorano i meccanismi d’interazione con l’ambiente e le forme architettoniche
di Alessia Maccaferri
I punti chiave
3' di lettura
La domanda cruciale viene da lontano, al crocevia della storia dell’architettura e della filosofia: perché una scuola, un ufficio o un’istituzione pubblica assume una specifica forma, diversa dalle altre? Qual è la forma appropriata? Più in generale, esiste una forma giusta? Ora le neuroscienze contribuiscono a mettere qualche punto fermo. «Il punto di svolta della mia indagine è stato un albero» spiega Davide Ruzzon, architetto, docente allo Iuav di Venezia e direttore scientifico di Tuned (Lombardini22).
« Esistono studi secondo i quali c’è una preferenza innata (indipendentemente dal contesto culturale ndr.) per un certo tipo di paesaggio, la savana africana, dominato dall’acacia che ha una netta biforcazione bassa che permette all’uomo di salire facilmente - continua Ruzzon - Questo albero è un dispositivo che innesca un’attività motoria, un salto. Allora mi sono chiesto: possibile che questa dimensione universale, questa disposizione motoria innata, sia limitata agli alberi? Ovviamente no».
Come percepiamo lo spazio?
Ruzzon ha ipotizzato che l’interazione con lo spazio produca e sedimenti un pattern. E ha analizzato i dispositivi spaziali che esistono in chiave evolutiva nello storia dell’uomo: dall’atto di sedersi al tuffo nell’acqua, dalla scalata verso la vetta alla discesa di un pendio. Ciascuno di questi schemi - che l’architetto analizza nel libro «Tuning Architecture with humans» pubblicato da Mimesis International (in alto la fotografia di copertina, di Chiara Rango) - ha connotazioni fisiologiche in termini di battito cardiaco, respiro, tensione muscolare ecc. E, come confermano sia filosofia del linguaggio e del corpo (da George Lakoff a Mark Johnson) sia la fisiologia con gli studi di Vittorio Gallese, tutta la dimensione concettuale, astratta nasce da questa dimensione fisiologica, corporea. La conoscenza, insomma, è sempre incorporata. Dunque: come percepiamo i diversi tipi di spazi? Quali sono le reazioni?
L’interazione con l’ambiente e le forme
Per dare una risposta Ruzzon ha condotto una serie di studi - finanziati da Cnr e Lombardini22 - assieme a Giovanni Vecchiato, Paolo Presti, Fausto Caruana e Pietro Avanzini, sotto la supervisione dello neuroscienziato Giacomo Rizzolatti, che per primo individuò i neuroni specchio. Il team ha osservato un gruppo di persone, dotate di caschetto Eeg (che rileva l’attività elettrica del cervello), in un ambiente di realtà virtuale assieme a diversi avatar che riproducevano espressioni motorie specifiche (e usati come gruppo di controllo). I partecipanti hanno vissuto decine ambienti differenti cosicché i ricercatori potessero vedere le reazioni sia in spazi ad alto e basso livello di attivazione (del battito, del respiro ecc). «Lo spazio influenza la percezione emotiva dei corpi. Noi veniamo attivati e deattivati in funzione di ciò che vediamo, sperimentiamo con il corpo. È la dimostrazione che la navigazione in uno spazio cambia il nostro stato emotivo. È una percezione dinamica: noi non percepiamo l’architettura come una fotografia , non è una percezione visiva istantanea. Piuttosto è questa navigazione dinamica dello spazio, in cui siamo immersi, che ci influenza. È una interazione profonda dentro l’architettura».
Progettare mitigando lo stress
Questa affermazione porta con se conseguenze profonde per chi progetta, perché ci sono spazi che possono aumentare lo stress o mitigarlo. Ruzzon sta lavorando dentro al carcere Bassone di Como con la psicologa Emanuela Saita dell’Università Cattolica, l’architetto Cesare Burdese, e con Pietro Buffa, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia. «Stiamo facendo uno studio di fattibilità per cambiare il carcere, sulla base di un esperimento condotto su un centinaio di persone tra detenuti e personale di custodia per capire come lo spazio influisce sullo stato di benessere».
L’approccio progettuale che propone Ruzzon presuppone di mettere davvero al centro i soggetti che usano lo spazio attraverso l’analisi delle attese emotive con gli strumenti delle neuroscienze. Inoltre vanno integrate le diverse scale della percezione come l’interno e l’esterno. Poi va assunta sempre più un’ottica di multidisciplinarietà, superando le barriere tra discipline scientifiche e umanistiche («a questo proposito l’antropologo sociale scozzese Tim Ingold dice che dobbiamo essere in-disciplinati», aggiunge Ruzzon).
Una città inclusiva e ricca di senso
In Italia molto resta da fare. A cominciare dalla scuole che «nonostante la riforma del 1975, risentono dell’impostazione originaria, basata sul controllo». Il commercio ha grandi sfide davanti a se, a cominciare dall’ecommerce. «L’esperienza del centro commerciale va concepita come attività che inizia fuori, va rafforzato il tessuto connettivo con la città». Sugli uffici la pandemia ha insegnato tanto, «l’ufficio va inteso come hub sociale, e quindi pensato come organizzazione vitale, con senso di appartenenza». Infine, le neuroscienze possono contribuire a disegnare una città più inclusiva, considerando anche i pattern di interazione con lo spazio pubblico adatti ai bambini, alle persone con neurodiversità, alle persone più anziane. E poi «come dice David Seamon, studioso della fenomenologia urbana, gli spazi devo creare coreografie, un sistema vivo ricco di senso».
loading...