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Next Generation EU, cos'è e come funziona

Il maxi-piano da 750 miliardi di euro dovrebbe rilanciare un’economia affossata dalla crisi pandemica. Mancano gli ultimi piani nazionali. Ma bisognerà accelerare prima che sia tardi

di Alberto Magnani

L’articolo è stato aggiornato il 27 e il 28 aprile dopo la presentazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza

(REUTERS)

7' di lettura

Charles Michel, il presidente del Consiglio europeo, temeva che un accordo Ue su un piano di ripresa si sarebbe rivelato «una missione impossibile». Come sperava lui stesso, è andata diversamente. Il 18 dicembre 2020, Parlamento e Consiglio hanno raggiunto un’intesa finale su Next Generation EU, il programma da 750 miliardi di euro per il rilancio di un’economia Ue travolta dalla crisi pandemica. L’Italia ha avuto accesso a una quota di 209 miliardi, fetta che equivale al 27,8% dell’intero importo.

La prima erogazione di fondi è prevista verso luglio, con lo sblocco di una quota pari al 13% dei fondi totali. Sempre che tutto fili liscio, visto che la tabella di marcia da qui all’estate è abbastanza fitta. La scadenza più ravvicinata è al 30 aprile, quando tutti gli stati membri dovranno aver inviato alla Commissione il proprio piano nazionale di ripresa e resilienza: un documento che illustri nel dettaglio le azioni da intraprendere con i soldi in arrivo da Bruxelles. Poi scatteranno le valutazioni sulle strategie dei vari governi nazionali e, nel caso, il via libera del Consiglio della Ue.

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Cos’è e come funziona Next Generation Eu

Next Generation Eu (NGEU) è uno strumento per il rilancio dell’economia Ue dal tonfo del Covid-19, incorporato in un bilancio settennale 2021-2027 del valore di circa 1.800 miliardi di euro (i 750 di Next Generation più gli oltre 1000 miliardi a budget). Il nome scelto evoca un piano proiettato, appunto, sulla nuova generazione e le nuove generazioni della Ue, ma col tempo si è finita per creare una certa confusione terminologica fra espressioni simili o quasi identiche fra loro: Next Generation Eu, Recovery fund, Recovery plan, Piano nazionale di ripresa e resilienza. Cerchiamo di fare un po’ d’ordine.

Next Generation Eu, come si è visto, è il piano per il rilancio Ue da 750 miliardi. Viene spesso chiamato con l’etichetta - erronea - di Recovery fund, ereditata dal progetto embrionale di un «fondo per la ripresa» e, oggi, frutto della sovrapposizione che si crea con il Recovery and resiliency facility: il Dispositivo europeo per la ripresa e la resilienza, programma cardine di Next Generation Eu con la sua dotazione di 672,5 miliardi di euro spartiti fra 360 miliardi di prestiti e 312,5 miliardi di sovvenzioni. Si chiama così perché l’obiettivo è di stimolare investimenti che spingano al ripresa (recovery) e riforme che aumentino la sostenibilità delle singole economie europee, rendendole più «resilienti» ai cambiamenti che incombono negli anni di ripresa dalla crisi del Covid (resiliency).

Un capitolo a sé è rappresentato infine dai Recovery and resiliency plans, in italiano piani nazionali di ripresa e resilienza (o Pnrr): i piani che i vari Paesi devono sottoporre a Bruxelles per spiegare come e dove spenderanno i soldi in arrivo dalla Ue.

Il Recovery e resiliency facility incide, da solo, su quasi il 90% dei 750 miliardi complessivi di Next Generation Eu. Il restante 10% circa ( 75,5 miliardi) sono distribuiti fra React Eu (47,5 miliardi), Orizzonte Europa (5 miliardi), Fondo InvestEu (5,6 miliardi), Sviluppo rurale (7,5 miliardi), il fondo per la transizione giusta (10,5 miliardi) e RescEu (1,5 miliardi).

Da dove arrivano i soldi?

La novità più dirompente è che l’intera somma di 750 miliardi di euro verrà raccolta sui mercati con l’emissione di debito comune, garantito in solido da tutti i paesi della Ue.

Per offrire più sicurezze agli investitori, la Commissione deve aumentare il suo margine di manovra: la differenza tra il massimale delle risorse proprie, i contributi versati dai singoli stati Ue, e il massimale dei pagamenti effettuati con il bilancio Ue.

L’incremento è pari allo 0,6% del reddito nazionale lordo della Ue e scadrà al rimborso di tutti i fondi raccolti, al via dopo il 2027 e da chiudersi entro la data del 31 dicembre 2058. I parlamenti di tutti i 27 stati membri dovranno ratificare il via libera all’aumento delle risorse proprie, che comporta un incremento dei contributi da indirizzare a Bruxelles.

Come funzionano i piani dei singoli Paesi?

I singoli piani nazionali dovranno rispettare dei criteri predefiniti, concentrando progetti di investimento e spesa su alcune flagship areas, aree di punta: energie pulite e rinnovabili, efficienza energetica degli edifici, trasporti sostenibili, dispiegamento di banda larga, digitalizzazione della PA, sviluppo del cloud e dei processori sostenibili, istruzione e formazione per le cosiddette skills digitali. Come è facile intuire, la Commissione dà priorità assoluta a digitale e transizione ecologica, destinatarie di un tetto minimo di spesa nei piani nazionali: ogni stato deve indirizzare almeno il 37% della spesa a questioni climatiche e almeno il 20% al potenziamento della transizione digitale.

«Il piano va impattare il ciclo economico attuale e il Pil potenziale» spiega Carlo Altomonte, professore di Economia politica alla Bocconi di Milano e membro della task force del ministro della Pa Renato Brunetta. Rispetto al piano da 1.900 miliardi appena approvato da Biden, negli Usa, l’erogazione dei fondi verrà smaltita nell’arco di sei anni. «È una visione un po' diversa: per gli Usa tutto subito e poi nulla dal 2022 in poi. Nel caso della Ue si procede con più calma - spiega Altomonte - La scommessa è che le nuove generazioni possano ripagare il debito con un’economia più forte. Ecco perché i piani devono essere così precisi».

I quasi 250 miliardi del Recovery plan italiano

Il governo Draghi ha presentato il 26 e il 27 aprile a Camera e Senato il suo Piano nazionale di ripresa e resilienza, un pacchetto dal valore complessivo di 248 miliardi di euro: 191,5 miliardi dal Pnrr, 30,6 miliardi da un Piano complementare predisposto dal governo e altri 26 miliardi «da destinare alla realizzazione di opere specifiche». La voci più significative del testo, in coerenza con le linee guida di Bruxelles, sono rivoluzione verde e transizione ecologica (destinataria del 40% delle risorse, pari a 68,6 miliardi di euro), digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (il 27%, pari a 49,2 miliardi) e inclusione e coesione sociale (il 10%, l’equivalente di 22,4 miliardi di euro). Il governo si è spinto oltre le asticelle minime di spesa su transizione green e digitalizzazione, fissate al 37% e al 20%, ma non è un caso isolato. La Germania ha deciso di concentrare il 90% degli investimenti su rivoluzione verde e digitale, anche se a fronte di cifre decisamente più ridotte (11,5 miliardi e 14 miliardi di euro). Il governo Draghi dovrà rispettare una tabella di marcia che concentra nell’arco di un biennio tutte le riforme previste nel piano, con i primi decreti su Pa, superbonus e ambiente attesi già nel maggio 2021.

La tabella di marcia e i rischi di incidenti

I singoli paesi devono consegnare entro il 30 aprile i piani, che saranno poi analizzati caso per caso dalla Commissione. L’esecutivo avrà due mesi di tempo per effettuare la sua valutazione in base a un totale di 11 criteri, suddivisi nei quattro pilastri di pertinenza, efficacia, efficienza e coerenza. Se almeno 6 ottengono la valutazione massima («pienamente soddisfacente»), il documento è trasmesso al Consiglio Ue, che ha un margine di quattro settimane per dare il suo via libera definitivo. L’erogazione dei fondi dovrebbe scattare a luglio, con una prima tranche pari al 13% della quota destinata ai singoli paesi.

Sulla carta, la strada sembra abbastanza spianata: nessun paese ha interesse a perdere la propria quota di fondi, l’iter è predefinito e criteri fissati dalla Commissione per i piani di ripresa e resilienza non lasciano troppi margini di creatività alle strategie dei vari governi. Eppure rimangono degli ostacoli prima e durante l’erogazione dei miliardi di euro che la Ue si accollerà come suo debito nei prossimi mesi. Il primo scoglio è la ratifica dell’incremento delle risorse proprie da parte di tutti i 27 paesi, passaggio fondamentale per consentire alla Ue di emettere debito: senza l’ok di tutti gli stati membri, Bruxelles non può iniziare la raccolta sui mercati.

La speranza è che la partita si chiude nei tempi stabiliti, ma «basta un intoppo a bloccare tutto» spiega al Sole 24 Ore Irene Tinagli, presidente della Commissione affari economici del Parlamento europeo. Incassata la ratifica, i piani dei vari governi devono passare indenni per la verifica della Commissione. «Dipenderà tutto dalla loro qualità: se tutti gli elementi sono idonei, è chiaro che il processo diventa più rapido - dice Tinagli - Ma non parlo solo dell’Italia: ho visto timidezza nei progetti di investimenti anche di altri paesi».

Un’Europa più unita (o l’esatto contrario)

L’obiettivo di Next Generation EU è quello, esplicito, di rimettere in moto l’economia continentale. I primi impatti dovrebbero misurarsi con la messa a terra di progetti e l’effetto benefico sul clima di fiducia dei singoli paesi, utile anche per attrarre investitori e ridare fiato a investimenti congelati dalla crisi pandemica.

L’emissione di debito comune è stata una svolta radicale per l’integrazione economica della Ue. Ma potrebbe diventare anche la causa di fratture ancora più profonde di quelle che stanno già facendo vacillare la costruzione comunitaria, minata anche dalle polemiche sulla gestione della campagna vaccinale.

Uno fra i motivi di dissidio potrebbe nascere su come i singoli paesi decidono di investire le proprie risorse, argomento sensibile soprattutto per il blocco dei paesi del centro-nord: il quartetto dei cosiddetti frugali di Austria, Danimarca, Finlandia e Paesi Bassi, pronti a dire la propria su un uso troppo disinvolto dei fondi Ue dai paesi che hanno ottenuto le quote più laute di risorse.

Fra gli osservati speciali ci sono economie come quella di Spagna e ovviamente Italia, con i suoi oltre 200 miliardi di euro in arrivo: «Si tratta di paesi che non hanno dei precedenti felici, per quanto riguarda la spesa dei fondi Ue - dice Zsolt Darvas di Bruegel,un think tank belga - Se i soldi verranno spesi male, questo potrebbe accrescere le tensioni interne alla Ue e impedire che misure simili di solidarietà vengano applicate in futuro».

Dal Parlamento Ue, c’è chi spera che prevalga il sentimento contrario. «Bisogna evitare che questo diventi un nuovo strumento di divisioni - dice Tinagli - Spero che tutti i paesi capiscano la portata di questa sfida e quanto sia difficile mettere a terra dei progetti. Deve prevalere l’unità, non gli scontri».

L’ago della bilancia torna ancora sulla qualità dei piani che saranno presentati a Bruxelles e, ovviamente, la capacità di attuarli in tempi rapidi. Lo stesso motivo che ha indotto il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, a chiedere alla Commissione di valutare i tempi rapidi le varie proposte arrivate o in arrivo sul suo tavolo. «Se noi torniamo a crescere sui soliti valori di zero virgola con il nostro debito non riusciamo a ripagare il debito - dice Altomonte, della Bocconi - Quindi o facciamo aumentare la crescita o ci troviamo di fronte a un baratro».

Riproduzione riservata ©
  • Alberto MagnaniRedattore

    Luogo: Milano

    Lingue parlate: inglese, tedesco

    Argomenti: Lavoro, Unione europea, Africa

    Premi: Premio "Alimentiamo il nostro futuro, nutriamo il mondo. Verso Expo 2015" di Agrofarma Federchimica e Fondazione Veronesi; Premio giornalistico State Street, categoria "Innovation"

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