Niente accordo sulla web tax. Allarme Ocse: potrebbe costare l’1% del Pil
Fumata nera sulla creazione di una tassa digitale a livello mondiale. Il negoziato slitta al 2021 e l’Ocse teme ricadute economiche
di Beda Romano
2' di lettura
BRUXELLES - Come previsto da alcuni e temuto da altri, il negoziato internazionale dedicato alla creazione di una tassa digitale a livello mondiale si trascinerà nel 2021, complici anche le elezioni presidenziali americane del mese prossimo. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha avvertito che senza una soluzione la questione rischia di creare tensioni commerciali in un contesto già difficile per via dell’epidemia da coronavirus.
Gurria: si rischia «una nuova guerra commerciale»
«Il bicchiere è mezzo pieno. Il pacchetto di norme è quasi pronto, ma manca un accordo politico», ha detto Pascal Saint-Amans, il responsabile delle politiche fiscali all’Ocse. La speranza è di trovare una intesa entro metà 2021. In assenza di accordo, ha notato il segretario generale dell’organismo internazionale Angel Gurría, si rischia «una moltiplicazione delle azioni unilaterali e delle misure di rappresaglia» e infine «una nuova guerra commerciale», con un costo in termini di Pil mondiale dell’1%.
Il nodo principale: niente vincoli territoriali
L’idea di una tassa riservata alle imprese digitali è legata al fatto che queste società non avendo radici territoriali riescono più facilmente di altre a eludere il fisco. Il desiderio quindi è di tassarle in modo corretto in un contesto di elevato debito pubblico per via delle ricorrenti crisi economiche di questi ultimi anni. Peraltro, queste stesse aziende, da Amazon a Google, hanno approfittato del lockdown di questi mesi.
I due aspetti del negoziato
Il negoziato verte su due aspetti. Il primo riguarda le imprese digitali. Come tassarle? Quali criteri usare? Il secondo invece è più generale ed è relativo a una aliquota minima a livello mondiale (possibilmente del 12,5%). Gli Stati Uniti hanno dato battaglia sul primo dei due temi, anche perché molte delle aziende sono americane. Per esempio: nel 2019 Facebook ha registrato un giro d’affari di 71 miliardi di dollari, pagando 6,3 miliardi di imposte, essenzialmente negli Stati Uniti (appena 8,5 milioni di euro in Francia).
Europa a più voci
Ancora a settembre, Bruxelles aveva avvertito che in mancanza di accordo entro la fine dell’anno avrebbe agito in via unilaterale per proporre una tassa digitale in Europa. Il tema è controverso. Alcuni paesi – come l’Irlanda o il Lussemburgo che ospitano aziende digitali – sono restii (in materia fiscale vale l’unanimità). Nelle scorse settimane, il commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni ha preannunciato la presentazione in autunno di un piano d’azione (si veda Il Sole 24 Ore del 13 settembre).
La Francia è combattiva in materia. Pur di facilitare un accordo con gli americani, Parigi ha deciso di sospendere una imposta digitale approvata dal Parlamento francese. Ieri dal ministero delle Finanze a Parigi si notava: «Sono stati compiuti progressi (…) Il lavoro svolto a livello tecnico costituisce una base solida per avere finalmente una decisione politica. Tutti i paesi devono continuare a lavorare per prendere rapidamente una decisione».
Alla ricerca dell’armonizzazione
Più in generale, il tema incrocia in Europa quello dell’armonizzazione fiscale e dell’adozione di imposte europee e non solo nazionali. Lo shock economico provocato dalla pandemia ha costretto i Ventisette a chiedere alla Commissione europea di prendere a prestito 750 miliardi di euro per sostenere la ripresa. Molti qui a Bruxelles ma anche in altre capitali sperano che la questione del rimborso induca i Paesi membri a creare un fisco più federale.
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