Nobel per la Medicina alla scoperta del virus dell’epatite C
Identificato nel 1989 grazie agli studi nel tempo dei tre scienziati che sono stati premiati: Harvey Alter, che ha lavorato a lungo ai National Institute of Health negli Usa, Michael Houghton, laureato al King's College di Londra e poi ricercatore nel mondo dell'industria farmaceutica, e Charles Rice, docente all'Università Rockfeller di New York
di Federico Mereta
3' di lettura
Una sfera, ma senza le “spine” che abbiamo imparato a conoscere con il Sars-CoV-2. All'interno di questa struttura sono contenuti i geni, che appena la capsula virale si apre per replicarsi all'interno della cellula del fegato determinano lo sviluppo di nuovi virus. È questo l'identikit del virus dell'epatite C, identificato nel 1989 grazie agli studi nel tempo di tre scienziati: Harvey Alter, che ha lavorato a lungo ai National Institute of Health negli USA, Michael Houghton, laureato al King's College di Londra e poi ricercatore nel mondo dell'industria farmaceutica, e Charles Rice, docente all'Università Rockfeller di New York.
In particolare Rice diversi anni prima dell'identificazione del virus ha ipotizzato il ruolo di un “nuovo” virus all'origine dell'epatite post-trasfusione, Houghton ha descritto i geni del “nemico “ e Alter ha poi chiarito i meccanismi di replicazione virale. Ai tre, per queste ricerche “combinate”, va il premio Nobel 2020 per la Fisiologia e la Medicina assegnato dal Karolinska Institute di Stoccolma.
Grazie ai loro studi si è verificata una vera e propria rivoluzione nel mondo delle malattie infettive che, in assenza di un vaccino, negli ultimi anni ha consentito di giungere a terapie efficaci in grado di eradicare il ceppo virale, sostanzialmente eliminando la malattia, gravata da pesanti, possibile complicazioni, prime tra tutte la cirrosi epatica e il carcinoma del fegato.
I tre esperti, due americani e uno originario del Regno Unito, si divideranno il Premio di poco un milione di euro (dieci milioni di corone svedesi).
Un'infezione in fasi diverse
Il virus, che è stato scoperto dai tre studiosi nel 1989 con isolamento in vitro e caratterizzazione, colpisce nel mondo un numero stimato (al ribasso) di 70 milioni di persone. E ha caratteristiche estremamente specifiche, anche nell'indurre la risposta dell'organismo. Per reagire alla iniziale replicazione virale il sistema difensivo del corpo, individuato l'estraneo, si attiva per attaccarlo. Prende così il via l'infezione, che in una bassa percentuale di casi guarisce spontaneamente. In circa quattro persone su cinque, invece, può cronicizzare, con due fasi ben distinte.
L'infezione acuta dura mediamente sei mesi e spesso il virus non dà alcun segno della sua presenza, pur se può determinare danneggiamenti al fegato. In questo lasso di tempo alcune persone riescono a eliminare completamente il virus. Come detto, tuttavia, nella maggior parte degli individui il virus permane nel fegato e l'infezione si mantiene nel tempo. Se il quadro diventa cronico il virus, continuando a replicarsi, induce un progressivo danno all'organo che tende a peggiorare col tempo. Alcune persone possono avere sintomi generici di malessere, come stanchezza o dolori muscolari, ed altre non hanno alcun disturbo. Nel frattempo il virus, moltiplicandosi, può dar luogo all'aumento dei valori di specifiche sostanze nel sangue (enzimi epatici chiamati transaminasi) e può indurre la trasformazione del tessuto normale in cicatrici (fibrosi). Il fegato non riesce a lavorare normalmente e nel tempo, pur se con ampie variazioni da persona a persona, la situazione peggiora e in alcuni casi porta alla cirrosi epatica.
L'impatto dell'infezione
L'epatite C negli anni scorsi è stata la causa principale delle cirrosi, dei tumori al fegato, dei trapianti di fegato e dei decessi in pazienti con coinfezione tra virus Hiv e virus C dell'epatite, Sul fronte della prevenzione, la condivisione di aghi o siringhe è a tutt'oggi il maggior fattore di rischio di contrarre la malattia. Ma non è il solo. Altri fattori includono il tatuaggio e il body piercing eseguiti in ambienti non igienicamente protetti o con strumenti non sterilizzati, la trasmissione dell'infezione per via perinatale al proprio figlio, la trasfusione di sangue non sottoposto a screening, tagli/punture con aghi/strumenti infetti in contesti ospedalieri, ma anche la condivisione dei dispositivi per l'assunzione di droghe inalabili e di spazzolini dentali o spazzole da bagno contaminati, se utilizzati in presenza di minime lesioni della cute o delle mucose. Anche se l'epatite C non è facilmente trasmissibile per via sessuale, rapporti non protetti, anche con più partner, sono associati a un rischio maggiore di contrarre il virus.
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