Nomofobia, l’ansia da disconnessione che colpisce sempre più spesso
Il 51% degli utenti su base mondiale non riesce a trascorrere un’ora del proprio tempo senza controllare almeno una volta il proprio smartphone
di Jacopo Benedetti *
4' di lettura
Siamo consapevoli di quanto utilizziamo il cellulare durante il giorno? Secondo i dati 2021 raccolti da App Annie abbiamo un utilizzo medio di quasi cinque ore al giorno: l’utilizzo più alto di sempre. Non abbiamo mai trascorso così tanto tempo con gli occhi fissi sui nostri dispositivi mobili con un incremento di circa il 30% rispetto agli anni precedenti. Secondo Statcounter, il 2021 è stato il primo anno in cui, in Italia, desktop e mobile si sono divisi equamente il market share degli accessi alla rete e per il momento il 2022 vede in testa, per la prima volta, le connessioni da mobile.
Già dal 2008, una ricerca realizzata da YouGov nel Regno Unito ha introdotto il termine nomofobia, in inglese NoMoPhoBia: un acronimo che sta per “No Mobile Phone phoBia”, ovvero quella particolare condizione psicologica che si verifica quando alcune persone manifestano la paura di staccarsi dai propri dispositivi mobile. Questa fobia situazionale può portare le persone a provare stati di ansia elevati, manifestando la necessità di non spegnere mai i propri dispositivi, di controllare spasmodicamente la presenza di nuove notifiche, di monitorare/aggiornare i propri social o i propri feed come ultima azione prima di dormire e come primo atto appena svegli, di tenere con sé il proprio dispositivo perfino in bagno (è molto probabile che qualcuno tra noi abbia ascoltato dai propri amici aneddoti divertenti di smartphone rotti o recuperati dopo funamboliche cadute dentro i WC).
Nel 2008 gli utilizzatori di Internet erano poco più di un miliardo e mezzo, nel 2021 sono triplicati per arrivare a quasi cinque miliardi (fonte: statista.com) e insieme a loro è cresciuto esponenzialmente il tempo dedicato alla fruizione dei contenuti digitali. Dal momento che, come ricorda la prima legge di Kranzberg, “la tecnologia non è né buona né cattiva; non è neanche neutrale”, la responsabilità per un utilizzo sicuro della tecnologia che abbiamo a disposizione ricade sugli utenti.
L’utilizzo inconsapevole di una tecnologia, come in qualsiasi altra situazione, aumenta l’esposizione della persona ai possibili rischi che ne derivano. Nel 2012 Sherry Turkle anticipava il dibattito sul metaverso parlando di un cambio di prospettiva che già si era realizzato nel passaggio dal multi-tasking al multi-lifing: abbiamo creato di fatto un miscuglio esistenziale composto da identità diverse che si sovrappongono e delle quali ci prendiamo cura nello stesso modo, spesso generando confusione nella definizione di chi siamo realmente.
A distanza di dieci anni il dibattito resta attuale alla luce delle riflessioni che emergono dopo tre anni di pandemia e mettono al centro la salute mentale delle persone: secondo alcune ricerche, si è registrato un aumento estremamente significativo degli stati di ansia e depressione. Alcuni dati possono mettere in luce aspetti più nascosti della nomofobia: benché molti sintomi siano i medesimi di altre patologie, secondo Trend Hunter circa il 66% degli utilizzatori di device mobili mostrano segni evidenti di nomofobia. La community del Cambridge Dictionary ha votato la nomofobia come parola più significativa del 2018.
Durante la pandemia il tempo medio speso in compagnia degli smartphone è ulteriormente aumentato e il 51% degli utenti su base mondiale non riesce a trascorrere un’ora del proprio tempo senza controllare almeno una volta il proprio device (la percentuale aumenta al 68% se si considera esclusivamente la fascia di età 18-34). Il 71% dorme con accanto il proprio telefono e il 3% addirittura tenendolo in mano. Deloitte aggiunge che circa il 40% delle persone controlla le notifiche durante la notte.
Se anche voi vi riconoscete in alcune di queste situazioni, potrebbe essere utile approfondire l’analisi per scoprire se siete già entrati in uno stato nomofobico. I media, persuasivi per loro natura, comunicano ed educano ovvero trasferiscono agli utilizzatori delle lenti attraverso le quali leggere sia i fenomeni esterni (ciò che accade nella vita offline) sia i fenomeni interni (per esempio tutto il processo di strutturazione e di definizione del self). Come comportarsi allora?
Benché in alcuni possa sorgere un naturale istinto luddista, rimane questa una soluzione parziale e miope limitata agli aspetti puramente negativi della tecnologia. Sarebbe forse più utile impostare una riflessione attiva per riuscire a gestire meglio l’utilizzo quotidiano dei nostri dispositivi. Allenarsi alla disconnessione, provare a lasciare da parte il telefono in momenti specifici della giornata (durante i pasti, nelle ore prima di andare a dormire, la mattina finché non si è pronti per iniziare il lavoro…), provare a eliminarlo nel momento in cui si intrattengono relazioni e conversazioni (anche se arriva una mail o una telefonata, domandiamoci se non sia possibile posticiparla di qualche minuto).
In tutte le situazioni in cui utilizziamo i device come stress reducer, può essere utile sforzarsi di investire quel tempo in altre attività, anche se per qualcuno potrebbero avere un appeal apparentemente inferiore (dalla lettura al movimento fisico, dalla ricerca di un hobby al riposo fine a se stesso). Sarebbe interessante in questo momento storico continuare il dibattito che si è avviato anni fa, alla ricerca di soluzioni orientate al benessere delle persone, ad una reale educazione digitale che possa fornire a tutte le età gli strumenti giusti e le chiavi di lettura adeguate per riportare la tecnologia al posto che le compete: ovvero al servizio dell’essere umano.
* Consulente di Newton SpA
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