Non c’è una leadership possibile senza cura delle persone
La capacità di coinvolgimento e di ascolto per relazionarsi tra individui prima ancora che con dipendenti è un fattore chiave per il successo
di Gianni Rusconi
5' di lettura
“Chi ha un ruolo apicale, chi deve guidare e prendere decisioni, spesso in solitudine, si veste di una corazza. Ma siamo persone, con le nostre debolezze e fragilità, e vale la pena fare ogni tanto una sosta di manutenzione per valutare se abbiamo perso quella sensibilità di fondo che ora è necessaria per governare la complessità”. Scorrendo la prima frase dell’introduzione al libro “Leadership di cura” di Valeria Cantoni Mamiani (docente e formatrice, nonché presidente di ArtsFor, società di consulenza culturale e sviluppo organizzativo), che riprende testualmente le parole di una manager che a gennaio 2021 partecipò a un suo webinar, si entra immediatamente nella dimensione di una questione al centro del dibattito ben prima che scoppiasse la pandemia.
Una questione la cui importanza, nell’economia del percorso di crescita di un'organizzazione, è però sensibilmente cresciuta nel corso degli ultimi due anni.“Non è stato il lockdown a dare direttamente vita a questo testo - racconta al Sole24ore.com - ma è indubbio che abbia molto contribuito a sedimentare queste tematiche. E la raccolta delle narrazioni individuali e collettive nelle sessioni tenute con i manager necessariamente online è stata decisamente utile per raccogliere materiale preziosissimo sul quale lavorare per definire le linee guida del leader di oggi e di domani”.
Chi dirige un’azienda, come si legge ancora nell'introduzione, è a un bivio: da una parte ha l’opzione di mantenere uno stile e un’idea di leadership verticale, patriarcale e assertiva; dall’altra ha la possibilità di aprirsi a forme inclusive e a un modo di vivere il ruolo senza troppo identificarsi in esso, procedendo orizzontalmente in mezzo ai cambiamenti. Alla natura autoritaria della prima scelta, basata sul principio della forza muscolare e sull’imposizione delle decisioni prese dall’alto, si contrappone un approccio votato a convertire la cultura organizzativa dal sacrificio alla soddisfazione condivisa, facendo dell’ascolto dei reali bisogni delle persone un punto focale e partendo dal presupposto che il benessere non è un traguardo a somma zero.
La “leadership di cura”, per l’appunto, è la ricetta che Cantoni Mamiani descrive in modo approfondito con l’intento (riuscito) di mettere a fattor comune il principio che solo grazie a valori come rispetto, fiducia, empatia, responsabilità e cooperazione si può attraversare (tutti insieme) questa fase storica contrassegnata da incertezza e vulnerabilità.
“La pandemia - aggiunge in proposito l'autrice - ha ribaltato molti criteri e modelli operativi, mettendo a nudo diverse criticità di gestione delle persone costrette a lavorare da remoto. Si è però aperta una grande opportunità di trasformare elementi negativi come la destabilizzazione, l’opacità, la perdita di controllo e la confusione in valori positivi e in un setting di capacità soft. Ma serve un profondo esercizio di autovalutazione e di autoconsapevolezza”.
La capacità di coinvolgimento e di ascolto di un leader per relazionarsi con persone prima ancora che con dipendenti, funzioni o mansioni, è quindi una delle chiavi per traghettare l’impresa fuori dalle acque agitate di un percorso di adattamento e trasformazione che interessa l’organizzazione nella sua interezza. Se queste capacità vanno in cima alla scala gerarchica della cultura manageriale, scrive ancora l’autrice, avremo una nuova cultura aziendale più adatta ad affrontare le perturbazioni senza perdersi per strada le persone.
“L’insostenibilità relazionale, la conflittualità dentro le organizzazioni e la difficoltà di comprendere l’importanza dell’intelligenza emotiva sono un nervo scoperto con il quale le aziende, e in modo particolare i manager che gestiscono persone e prendono decisioni per loro conto, sono costrette a convivere da anni. Oggi - precisa Cantoni Mamiani - la piena consapevolezza delle emozioni altrui rappresenta un fattore decisivo, perché si è capito che la vulnerabilità non è un problema individuale ma una condizione universale da cui ripartire per ripensare la società, le organizzazioni, il lavoro e le gerarchie di potere. E chi ha saputo ascoltare ha fatto la differenza”.
Per chi ricopre posizioni di vertice la sfida da vincere oggi è dunque quella di creare nuove scale di valori che rendano le organizzazioni sostenibili, praticando una forma di leadership di cura e lasciando spazio all’autonomia dei componenti del team di lavoro, privilegiando la collaborazione alla competizione e concentrandosi sull’interpretazione dei bisogni reali, attraverso il diretto coinvolgimento dei destinatari dei benefici. In estrema sintesi le aziende e i loro leader sono invitati a costruire partnership generate dall’ascolto, cercando l’ideale punto di equilibrio fra flessibilità, engagement e rispetto degli obiettivi.
Dalla cultura del controllo si va dunque verso quella delle relazioni, partendo gioco forza dal (ri)mettere al centro le persone. Per ora questa scommessa sembra sia stata vinta solo dalle figure di middle management, dimostratesi le più reattive al cambiamento e le più sensibili al tema della consapevolezza emotiva, soprattutto nella componente femminile. Più in difficoltà, invece, si sono dimostrati i top manager, fatta eccezione per alcuni illuminati che hanno sposato seriamente il paradigma “people centric”, e i livelli di ingresso della classe dirigente.
In generale, dice ancora l'autrice, le persone più soddisfatte sono quelle rese più autonome e alle quali è stata data maggiore fiducia. E non è certo un caso che millennials e Gen Z abbiano imposto le loro regole sulla flessibilità operativa, sulla valutazione del proprio operato per obiettivi e sull’innalzamento della qualità della vita. Difficile, invece, pensare a una figura specifica incaricata di dare continuità al tema della cura e della qualità delle relazioni. Occorre piuttosto che ogni azienda si impegni a formare le persone su un modello che riduca ai minimi termini l’incertezza emotiva e la percezione di un capo che abbia il controllo su tutto e tutti.
Il tutto in uno scenario in cui si affermerà il lavoro ibrido, si ridurranno gli spazi e il turnover e si affermeranno nuove regole all’interno dell’organizzazione ispirate a uno stile di comportamento più evoluto e meno aggressivo e minaccioso. Il manager deve cambiare pelle, imparare a parlare e a comunicare con il proprio team, mixando linguaggio e azioni operative, abbandonando il dogma del “fai altrimenti ti punisco” e facendo proprio quello del “fai e poi ti premio”.
Si può essere leader gentili o non esserlo, conclude Cantoni Mamiani, citando la figura di Pierluigi Celli, suo mentore e autore della prefazione, “ma l’importante è essere leader di cura nell’essere curiosi verso l’animo umano in tutte le sue sfaccettature, soprattutto per quanto riguarda l’ascolto delle problematiche dei propri collaboratori. Senza minimamente scalfire l'autorevolezza del ruolo”. Non basta essere capo ed esercitare il proprio status: la leadership si afferma condividendo, raccogliendo e valorizzando le idee altrui, riconoscendo rispetto e dignità alle persone. Perché non c’è bisogno di essere manager per essere leader di cura, ma per essere leader, oggi, è necessario sapere che cosa vuol dire cura.
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