Cassazione

Non è diffamante la lettera contro il dirigente della Asl in difesa dei malati di Alzheimer

Rientra nell’esercizio di critica la denuncia del legale rappresentante che ha la percezione, anche se errata, di un’assistenza inadeguata ai malati

di Patrizia Maciocchi

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2' di lettura

Rientra nel diritto di critica la lettera, inviata a varie istituzioni, con la quale il legale rappresentante di una società autorizzata a gestire una struttura per malati di Alzheimer, accusa un dirigente della Asl di condotte scorrette verso il personale e i malati. La Cassazione (sentenza 37439) accoglie il ricorso contro la condanna per diffamazione confermata dal Tribunale, come giudice di appello, dopo il verdetto, sempre nel segno della colpevolezza, emesso dal giudice di pace. Alla base dei motivi della condanna le accuse, considerate non veritiere, mosse al dirigente Asl, “denunciato” per le sue condotte vessatorie verso i lavoratori e per la sua gestione che si traduceva nella negazione dei diritti dei malati. Ad avviso della Suprema corte, i giudici di merito hanno focalizzato l’attenzione sulla veridicità, di quanto narrato dal ricorrente che, oltre a evidenziare condotte vessatorie nei suoi confronti, aveva acceso un faro anche su l’assistenza inadeguata per gli ospiti della Rsa. In particolare per la mancata creazione di un Nucleo Alzheimer temporaneo: la cosiddetta fascia Nat. Un appunto specifico sul quale il Tribunale aveva sorvolato, limitandosi a chiarire che l’assistenza c’era.

Lesione scriminata in nome del diritto di critica

Per la Cassazione però le frasi, considerate offensive, verso il dirigente di zona, non andavano lette come una netta affermazione di incuria dei malati, ma come denuncia di una gestione che, secondo l’imputato, non era ideale nè efficiente. La sentenza impugnata - sottolineano i giudici di legittimità - ammette che le espressioni usate erano rimaste nei limiti della continenza verbale. Dunque la condanna si basava solo sull’assenza di verità. Per la Cassazione non basta. La buona fede del ricorrente giustificherebbe di per sé l’annullamento della condanna. Ma la soluzione è più complessa e merita un approfondimento. Certamente le frasi incriminate erano potenzialmente lesive della reputazione di una persona identificabile, accusata di essere faziosa e vessatoria, oltre che non capace. Tuttavia la Cassazione esclude il reato per il legittimo esercizio del diritto di critica che presuppone, per sua natura «la manifestazione di espressioni oggettivamente lesive della reputazione altrui, la cui offensività può, tuttavia trovare giustificazione nella sussistenza dello stesso diritto».

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La tutela Cedu per le idee che urtano e scuotono le coscienze

A questo punto entrano in gioco l’interesse sociale all’informazione, la verità e la continenza del linguaggio: quest’ultima già riconosciuta dai giudici di merito. Quanto alla verità, come detto, le espressioni erano riconducibili a interpretazioni e convinzioni che si erano fornate nell’imputato a proposito dell’intera vicenda. Per finire, certamente c’era il requisito dell’interesse sociale all’informazione, in relazione al trattamento riservato ai malati in generale e, nello specifico, agli anziani affetti da Alzheimer. E la notizia era attuale visto che riguardava fatti in corso di svolgimento. La Cassazione coglie l’occasione per ricordare che l’articolo 10 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea non tutela solo le idee favorevoli o inoffensive o indifferenti. Al contrario la Cedu è volta soprattutto a garantire la libertà di opinioni che «urtano, scuotono, inquietano». Di conseguenza queste non possono essere sindacate se non nei limiti della continenza espositiva che, una volta riscontrata, le scrimina in nome del diritto di critica.

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