ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùLa società che cambia/3

Non è più il benessere ma la permacrisi a svuotare i seggi elettorali

Per favorire una migliore metabolizzazione sociale e una spiegazione consolatoria, la crescita astensionista, al netto del non voto involontario, è spesso associata al benessere sociale diffuso nelle moderne democrazie.

di Carlo Carboni

3' di lettura

Per favorire una migliore metabolizzazione sociale e una spiegazione consolatoria, la crescita astensionista, al netto del non voto involontario, è spesso associata al benessere sociale diffuso nelle moderne democrazie. Le battaglie novecentesche per il suffragio universale sembrano oggi vanificate, tanta è la differenza del numero degli astensionisti dai tempi de La giornata d’uno scrutatore di Italo Calvino e quelli de Lo scrutatore non votante cantato da Samuele Bersani. In alcuni casi regionali, i non votanti sono quintuplicati.

Qualcosa di analogo era successo alla madre di tutte le democrazie, quella diretta ateniese nei suoi due secoli di storia. Ai suoi esordi, l’agorá ai piedi della collina Pnice era affollata di oltre 50mila ateniesi liberi, ma col trascorrere dei decenni, i guerrieri erano costretti a stanare i cittadini per obbligarli a partecipare all’ecclèsia, per raggiungere il quorum di 5mila votanti in assemblea. C’è dunque un iconico precedente storico a comprovare che l’indifferenza dei cittadini odiata da Gramsci e la loro aridità morale romanzata da Moravia sono connaturati a un benessere che alimenterebbe quel cinismo individualista che vede il bene comune solo in funzione di un egoistico vantaggio. Questa caduta dell’uomo pubblico e della cittadinanza come appartenenza attiva apre la strada all’inclinazione alla delega, alla lealtà passiva. Quest’interpretazione che tende ad attribuire la crescita dell’astensionismo alla modernizzazione è stata corretta dai politologi, evidenziando limiti e trasformazioni dell’offerta politica, come il declino del voto di appartenenza per il crollo delle ideologie novecentesche e di quello clientelare per le ristrettezze del bilancio pubblico, la crisi dei partiti di massa e la leggerezza dei raggruppamenti politici più recenti e, in certi casi, anche la mancanza di leader politici carismatici.

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Tuttavia, oggi, sembra più convincente associare l’astensionismo allo scollamento tra élite politiche e pubblici elettorali di massa. In società pluraliste e frammentate, le grandi omogeneità sociali e culturali di classe sociale sono evaporate, lasciando il passo alla sempiterna disuguaglianza (secondo Gaetano Mosca) tra élite e massa: le prime sempre più organizzate, autoreferenziali e mediatizzate; la massa, se non liquida, insiemi di spettatori distratti e assoggettati al fascino delle nuove grammatiche tecnologiche. Nel dopoguerra, la prima faglia profonda tra élite e masse fu prodotta negli anni ’80 e ’90 dalla rivolta delle élite contro la società del ceto medio creata dal keynesismo e dall’avanzata della cittadinanza sociale. Per dirla con John Dewey, la great society di allora voltò le spalle al progetto di consolidamento di una great community, in nome dell’individualismo e di quell’autoreferenzialità che ignora i problemi della società “di sotto”. Ai lampi della rivolta delle élite, ha fatto riscontro l’insorgenza populista del decennio scorso, accompagnata, in modo intermittente, ma crescente, da quel non voto che è di fatto un voto di dissenso. Parte dell’astensionismo non è indifferenza o delega, ma espressione di un disagio sociale ed esistenziale. Viene da pensare ai giovani Neet, astensionisti per vocazione. Secondo Ipsos, tra gli astensionisti primeggiano giovani e donne, mediamente mal trattati per retribuzione e qualità del lavoro. Inoltre, c’è il mondo del disagio dei working poor, della giungla del “lavoretti” e della sottoccupazione, ma anche di parte del ceto impiegatizio a bassa qualificazione, sempre più in bolletta.

Questo pezzo di società, che non è mai uscito dal tunnel della permacrisi, ha alimentato la protesta populista e persino espresso nuove élite. Queste hanno moltiplicato i leader illusionisti, ma una volta al governo, hanno visto una drastica riduzione degli illusi, molti dei quali, delusi, sono rifluiti nell’astensione da dissenso: tra loro, una buona parte non vota proprio perché beninformata su un’offerta politica ritenuta inadeguata e senza coraggio. Il dissenso astensionista non vede più neppure la speranza nel vaso di Pandora. Perciò il non voto è anche uno stato d’animo, “da cane sciolto”, l’astenuto una crisalide che non diventa farfalla, che “prepara un viaggio ma non parte”, una contraddizione vivente, schiacciato sull’irrilevanza dell’io minimo che certifica l’ininfluenza del suo voto.

Se l’astensione, come il crollo degli iscritti ai partiti, evidenzia un malessere democratico è anche perché le attuali élite, democraticamente implose, non assolvono quelle funzioni di animazione (e selezione) della democrazia rappresentativa che la nostra Costituzione ha assegnato ai loro partiti. Anzi, di fronte a un’astensione tanto ampia e sfaccettata, le élite sono confuse e finiscono per astenersi dal dialogare con gli astenuti, bollandoli come cittadini inutili. Questa rinuncia non evita le perplessità sulla qualità di una democrazia ristretta, in cui 5 e più elettori su 10 non votano e un governatore o un sindaco sono eletti da 2 aventi diritto su 10. La legittimità matematica è certo salva, ma una volta al governo, è impervio ottenere il consenso sociale e la condivisione della cittadinanza quando tra astensione e opposizione i tre quarti degli elettori quel governo non l’ha votato.

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