il risiko dei media

Non solo Bezos: così i miliardari hanno conquistato la stampa Usa

di Enrico Marro

(Afp)

3' di lettura

Gli ultimi della lunga lista sono stati due famosi quotidiani californiani, il Los Angeles Times e il San Diego-Union Tribune, passati pochi giorni fa dal gruppo Tronc all’imprenditore delle biotecnologie Patrick Soon-Shiong per circa 500 milioni di dollari (più altri 90 di oneri pensionistici). Ma l’elenco delle storiche testate Usa finite a miliardari più o meno tecnologici è lunghissimo: tutti sanno della conquista (e del rilancio) del Washington Post da parte di Jeff Bezos, ma non molti ricordano per esempio che la vedova di Steve Jobs, Laurene Powell, l’estate scorsa ha acquistato la maggioranza di The Atlantic. Mentre il Boston Globe è finito in mano al proprietario della squadra di baseball dei Red Sox, John Henry, e il Minneapolis Star-Tribune è stato acquistato da Glen Taylor, miliardario che controlla la squadra di basket dei Timberwolves, con un altro magnate (stavolta dei casinò), Sheldon Adelson, che ha messo le mani sul Las Vegas Review-Journal.

È un ritorno al passato. Storicamente la stampa statunitense è sempre stata in mano a un’oligarchia di grandi famiglie più o meno illuminate: gli Ochs-Sulzberger per il New York Times, i Graham per il Washington Post, i Chandler per il Los Angeles Times, i Newhouse per il gruppo Condé Nast (con testate come Wired o il New Yorker). Un tipo di assetto proprietario che si è evoluto tra gli anni Settanta e i Duemila, quando molti gruppi editoriali sono finiti in Borsa, diventando di fatto ad azionariato pubblico. Ora - con la crisi dei vecchi modelli di business editoriali - il trend si è di nuovo invertito e un pugno di nuovi miliardari ha di nuovo conquistato le redini della stampa d’oltreoceano.

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È un bene o un male che i media Usa siano tornati in mano a un gruppo di miliardari privati? Bisogna distinguere due piani diversi, riflettono Rodney Benson della New York University e Victor Pickard dell’University of Pennsylvania: il business da una parte, la democrazia dell’informazione dall'altra.

Sul piano del business la proprietà privata ha molti vantaggi rispetto a quella diffusa, spiegano Benson e Pickard. Mentre le compagnie quotate devono teoricamente produrre valore per gli azionisti - il che si è tradotto nel settore editoriale in un’austerity senza fine - miliardari come Bezos hanno dimostrato di poter assorbire perdite di breve termine per conquistare profitti di lungo periodo: anziché continuare a tagliare i costi, il fondatore di Amazon ha investito in tecnologia e professionisti, migliorando qualità e conti.

Il rovescio della medaglia del modello “miliardario salva-giornali” è il rischio di conflitti di interessi e mancanza di trasparenza, spiegano i due esperti citando gli epici duelli Trump-Bezon, o il fatto che l’Atlantic della vedova di Steve Jobs si regga su notizie online “sponsorizzate” da singoli inserzionisti. «Le ricerche sul tema dimostrano che i media a proprietà diffusa tendono a essere più indipendenti e critici nei confronti dell’establishment», sottolineano Benson e Pickard.

Sul piano del business comunque Bezos ha molto da insegnare agli editori tradizionali. A suon di investimenti in tecnologia e contenuti, il re dell’e-commerce è stato incredibilmente rapido nel diffondere al Washington Post il verbo di Amazon, che in italiano si può tradurre con “Diventa Grande in Fretta”. Secondo le stime di comScore, già nell’ottobre 2015 il Post aveva sorpassato il New York Times come numero di lettori digitali (66,9 milioni contro 65,8 milioni), con una crescita del 59% rispetto all’anno precedente.

Una volta creata una colossale base di lettori digitali, il team del Post ha iniziato a monetizzare i contatti con un aggressivo funnel di marketing, secondo il credo di Bezos: molti abbonamenti ma a poco prezzo. «Storicamente giornali come il Post hanno fatto grandi ricavi con un numero relativamente piccolo di abbonati - ha spiegato più volte il fondatore di Amazon - oggi invece dobbiamo puntare su abbonamenti a prezzo contenuto ma spalmati su una base di lettori digitali enorme».

La chiave del trionfo digitale del Post si chiama tecnologia. Tecnologia e contenuti di grande qualità al servizio di un unico obiettivo: conquistare lettori digitali, per poi monetizzare. Ma la tecnologia, come nota Dan Kennedy della Northeastern University, ha bisogno di due cose: soldi e vision, ingredienti che spesso mancano agli editori tradizionali. Gli investimenti hi-tech fatti da Bezos sono stati davvero rilevanti, ma oggi «il Post digitale è davvero un piacere da esplorare - sottolinea Kennedy - dal sito alle diverse nuove app create per catturare pubblici differenti».

Un ecosistema di contenuti di qualità veicolati in modo virale su media e piattaforme diverse dove generano ricavi: probabilmente i media del futuro saranno simili al Post di Bezos. Ma quante delle testate tradizionali sapranno cavalcare il cambiamento, sopravvivendo alla transizione digitale?

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