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Meloni si prende l’Italia, exploit di Conte. Salvini e Letta gli sconfitti

La leader di FdI dovrà governare innanzitutto le sconfitte dei suoi alleati: Salvini è al governo ma ha perso moltissimi voti così come Forza Italia. Conte esce bene dalle urne, Pd a pezzi, fallisce l’Opa del Terzo polo su Forza Italia

di Emilia Patta

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5' di lettura

Una vittoria netta, con una maggioranza solida anche in Senato dove qualcuno evocava lo stallo. Giorgia Meloni stravince, si prende l’Italia e si prepara ad essere la prima donna a sedere a Palazzo Chigi forte del primato di Fratelli d’Italia il 26%. Ma si tratta di un traguardo raggiunto quasi in solitaria, con gli alleati storici della coalizione indeboliti e la Lega di Matteo Salvini, che solo alle europee del 2019 aveva raggiunto uno storico 34%, vicina al crollo: 8,9%, tallonata da Forza Italia all’8,3%.

Meloni vincitrice e solitaria, tra gli alleati indeboliti

E qui per Meloni cominciano i problemi: dovrà governare innanzitutto le sconfitte dei suoi alleati, Salvini in primis, sia nella formazione dell’esecutivo sia nell’azione di governo che verrà. È prevedibile che il leader della Lega, nonostante e proprio perché indebolito, vorrà marcare le differenze e riguadagnare lo spazio di rappresentanza perduto al Nord insistendo sui temi storici della Lega: l’autonomia differenziata delle Regioni piuttosto che il presidenzialismo caro a Meloni, ad esempio, così come la lotta all’immigrazione clandestina. Magari coronando la sua ambizione di tornare al Viminale nonostante il processo per la Open Arms ancora aperto. Tutte richieste che la premier in pectore non potrà ignorare, perché nonostante la disproporzione dei numeri sia la Lega sia Forza Italia - che proverà da parte sua a marcare il rapporto con la Ue, forte della sua appartenenza alla famiglia dei Popolari europei - hanno la golden share sul governo in formazione: entrambi sono decisivi per mantenere la maggioranza in Parlamento. Anche per questo il breve “victory speech” nella notte è all’Insegna della cautela: «La condizione dell’Italia e della Ue richiede la collaborazione di tutti», dice Meloni. «Se saremo chiamati a governare la Nazione lo faremo per tutti, per riunire un popolo esaltando ciò che unisce piuttosto che ciò che divide, dando agli italiani l’orgoglio di sventolare il Tricolore».

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Il crollo della Lega e la parabola discendente di Salvini, che però resta

In condizioni normali un crollo come quello della Lega porterebbe alle immediate dimissioni del leader. Ma nel caso di Salvini le condizioni non sono normali: la Lega ha sì perso come partito, ma ha contribuito alla vittoria netta della coalizione e i suoi parlamentari e dirigenti si apprestano a ricoprire una parte delle caselle di governo. Inoltre la Lega è da sempre un partito verticistico, del leader, e i rituali della successione sono meno fluidi che in altri partiti. E infatti il Capitano, nella conferenza stampa della mattina per commentare il risultato elettorale, rivendica il contributo alla vittoria netta del centrodestra e attribuisce il gap con Fratelli d’Italia al fatto che «responsabilmente» e «pensando al bene del Paese e non all’interesse di parte» la Lega ha scelto di sostenere il governo Draghi durante l’ultima difficile fase della pandemia. Si va avanti, dunque. Ma certo si può dire che la parabola di Salvini comincia oggi la sua curva discendente.

La netta sconfitta di Letta e la sorprendete rimonta di Conte

L’altro sconfitto di queste elezioni politiche è il segretario dem Enrico Letta: il suo Pd è secondo partito e primo dell’opposizione ma è inchiodato al 19%. Non sfonda dunque la soglia psicologica del 20% e si avvicina pericolosamente a quel 18,9% del 2018 più volte rimproverato all’ex segretario Matteo Renzi («il peggior risultato della storia del Pd, Renzi provò a distruggere il partito», ha rilanciato recentemente lo stesso Letta). Anzi, visto l’aumento dell’astensione di ben 9 punti rispetto a cinque anni fa e considerato che i bersaniani di Articolo 1 sono rientrati nel Pd mentre allora si presentarono da soli prendendo il 3,5%, per il Pd il risultato di ieri è anche peggiore. Ed è reso ancora più amaro dal successo dell’ex alleato e rivale Giuseppe Conte: il M5s, in picchiata nei sondaggi durante i giorni della caduta del governo Draghi proprio per mano di Conte (8%), celebra una rimonta per certi versi clamorosa attestandosi attorno al 15,5% e risultando primo partito al Sud.

Il Terzo polo di Calenda e Renzi c'è, ma fallisce l'Opa su Forza Italia

Dall’altro lato di quel campo largo a lungo e generosamente inseguito da Letta e poi andato in frantumi nei giorni della caduta di Draghi per mano di Conte, il cosiddetto Terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi sfiora l’8% (7,7). Un risultato oggettivamente buono ma che risulta ridotto rispetto alle aspettative a due cifre rese pubbliche dallo stesso Calenda. Anche perché l’Opa su Forza Italia di Azione\Italia Viva non sembra riuscita, riprova del fatto che la maggior parte dei voti terzopolisti proviene proprio dal Pd.

Letta si fa da parte ma resta traghettatore: subito il congresso

Il congresso democratico era statutariamente fissato a marzo 2023, a quattro anni dalle primarie che incoronarono Nicola Zingaretti, ma la presa d’atto della sconfitta da parte di Letta avvia il partito a un congresso in tempi brevi. Il segretario decide di non dimettersi per garantire una transizione ordinata e non traumatica, ma nella conferenza stampa convocata a Largo del Nazareno in contemporanea con quella di Salvini annuncia che non si candiderà: «È giusto lasciare il campo alle giovani generazioni - dice, pensando già alla vicepresidente dell’Emilia Romagna Elly Schein -. Serve in tempi brevi un congresso di profonda riflessione sul concetto di un nuovo Pd che sia all’altezza di questa sfida epocale di fronte a una destra che più destra non c’è mai stata». Quello che Letta non dice, ma che naturalmente sa benissimo, è che sarà un congresso in cui i convitati di pietra, ossia M5s e Terzo Polo, saranno più importanti dei candidati. Il Pd dovrà scegliere insomma in che direzione andare: verso un polo più schiettamente di sinistra, alla Melènchon, imperniato di nuovo sull’asse con il M5s ma in una posizione di debolezza per il Pd, come vorrebbe Conte che aspira alla leadership del novello campo largo; o verso un polo più schiettamente riformista che guardi al rapporto privilegiato con il duo Calenda-Renzi.

La spinta tra i dem per rinnovare l’abbraccio con il M5s e l'incognita Bonaccini

I numeri usciti dalle urne sembrerebbero favorire la prima opzione, ma è anche vero che in campo per le primarie c’è già una figura come quella del governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, i cui buoni rapporti politici con Renzi sono noti. Proprio per evitare accuse di “renzismo” da parte della sinistra del partito Bonaccini si è portato avanti nei giorni scorsi affermando che è necessario ritrovare il filo del dialogo e della collaborazione con il M5s. Ma è chiaro che tutto insieme non si può tenere, come ha dimostrato lo scontro verbale continuo e a tratti violento andato in scena tra Conte da una parte e Calenda e Renzi dall'altra durante tutta la campagna elettorale. L’imminente congresso è insomma occasione per definire una volta per tutte l’identità a la direzione del Pd, anche a rischio di nuove scissioni. Quel che è certo è che per il Pd, e per le opposizioni tutte, sarà una lunga traversata nel deserto.


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