Bussole & Timone

Nonostante tutto il rapporto tra debito e Pil deve calare

di Giovanni Tria

(Chapeaux Marc / AGF)

6' di lettura

Mentre si cerca il modo di fermare la guerra con crescenti sanzioni economiche contro la Russia, ci si deve mettere nelle condizioni di sostenerle. Prima del conflitto, nella complicata anche se rapida ripresa dell’economia globale, pur in presenza di una pandemia non completamente superata, erano già emerse le complesse interrelazioni che legano ciascun Paese all’economia globale.

Sul piano strettamente economico erano tre le questioni fondamentali che si ponevano immediatamente di fronte alle principali economie: come uscire dalle politiche monetarie e fiscali ultra-espansive; come rientrare dall’ammontare senza precedenti dei debiti privati e pubblici; come riavviare e stabilizzare la produzione di beni e servizi lungo le catene produttive internazionali, evitando restrizioni commerciali il cui esito inevitabile sarebbe stato maggiore inflazione e minore crescita globale.

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Le tre questioni erano e sono strettamente interconnesse e affrontarne una senza tener conto delle altre rischia di innescare nuove crisi. L’uscita dalle politiche monetarie espansive adottate nel corso della pandemia deve tener conto del loro possibile impatto sulla montagna di debiti addizionali accumulati nello stesso periodo sia nelle grandi economie occidentali sia nei Paesi emergenti e in via di sviluppo. È una strada da percorrere con attenzione, anche per non determinare problemi sui mercati finanziari ai debitori sovrani e a quelli privati. Ciò è possibile se la normalizzazione della politica monetaria accompagna e non precede il rafforzamento della crescita. Tuttavia, questa crescita economica, a sua volta può rafforzarsi senza inflazione solo se si ristabiliscono i canali produttivi e commerciali internazionali le cui strozzature oggi contribuiscono a determinare le carenze di offerta a livello globale che si traducono, in quasi tutto il mondo, in inflazione. Senza la compresenza simultanea di queste condizioni il percorso virtuoso di uscita dalla crisi pandemica rischia di tramutarsi in un nuovo cortocircuito di crisi che si trasmetterebbe da un Paese all’altro.

Il percorso virtuoso avrebbe immediatamente richiesto una consapevole cooperazione internazionale e un coordinamento tra le principali economie avanzate, nelle politiche monetarie e in quelle di bilancio, rafforzando il multilateralismo ed evitando un approccio competitivo/conflittuale.

Già prima della guerra si è visto ben poco di tutto ciò: l’inflazione saliva in tutto il mondo e le aspettative di crescita si allontanavano dall’ottimismo.

Ora siamo in guerra, il contesto cambia radicalmente, ma non cambia il fatto che i problemi economici si sono aggravati tutti e, quindi, ancor meno di prima sono risolvibili solo a livello di singole nazioni.

Per venire all’Italia, la domanda che ci si pone è se sia una scelta corretta quella contenuta nel Def appena approvato dal governo di continuare a programmare una riduzione del debito pubblico in percentuale del Pil, in linea con la correzione del 2021, nonostante le prospettive di crescita si siano fortemente attenuate e la spesa pubblica sia destinata a crescere per i costi della guerra diretti e indiretti, cioè a seguito dell’ulteriore atteso inasprimento della crisi energetica e dell’inflazione.

La domanda corretta sarebbe forse chiedersi se si tratti di una prospettiva credibile, ancor prima del giudizio sulla bontà o meno della scelta. Ebbene, crediamo che si tratti di una buona decisione per almeno tre motivi.

Il primo è che non possiamo pensare che il costo delle conseguenze economiche della guerra, così come quello dell’inflazione importata con il rincaro dell’energia e di tutte le altre materie prime e merci non prodotte in Italia, possa essere trasferito semplicemente tutto al futuro mediante debito addizionale. Il secondo motivo è che in una fase di crescenti incertezze, nei mercati e tra i cittadini, non possiamo crearne di ulteriori, decidendo “unilateralmente” di ampliare ancora il debito, soprattutto in una fase
in cui si chiede gradualità nel rientro dalle politiche monetarie espansive e in cui si allenta da parte della Bce la copertura nei mercati all’emissione di nuovo debito. Il terzo motivo, che ritengo il più importante e che risponde anche alla domanda sulla credibilità, è che è difficile prevedere la durata
della guerra, l’impatto delle sanzioni economiche attuali e future che verranno adottate nell’ambito del conflitto e le loro ripercussioni sui commerci mondiali e sulla crescita globale.

Le previsioni sono oggi volatili e quindi lo sono inevitabilmente
anche quelle contenute nel Def. La conseguenza di tutto ciò è che non sappiamo se la discesa del debito sarà in effetti possibile in tempo di guerra, ma se insieme all’Europa devono essere prese le decisioni di guerra,
seppur economica, insieme all’Europa devono essere prese anche
quelle relative al modo di far fronte alle conseguenze di tali decisioni, compreso quelle riguardanti il debito.

Inoltre, se è vero che la guerra ha determinato una maggiore unità dell’Europa, ciò si dovrebbe cogliere anche in una coerente accelerazione della riforma della governance economica continentale.

Il parlamento sembra aver raggiunto un accordo di massima sulla legge delega per la riforma fiscale. Il punto più condiviso è quello che riguarda la necessità di ridurre la pressione fiscale diretta, cioè l’Irpef, sulle classi di reddito medio basse. Ma per ciò che riguarda la dimensione possibile di questa riduzione, un tema che sembra dimenticato nel dibattito è quello del possibile spostamento del prelievo dalle imposte dirette (Irpef) alle imposte indirette (Iva), cioè dai redditi dei fattori produttivi, che nel caso dell’Irpef sono sostanzialmente i redditi da lavoro, oltre che da pensioni, alla tassazione dei consumi. Il ministro Tremonti definiva questo spostamento “dalle persone alle cose”. Una dimenticanza che è molto strana perché, in un periodo di europeismo condiviso, si elude proprio una raccomandazione tradizionale della Commissione europea. Una raccomandazione il cui fondamento sta nel fatto che questo spostamento del prelievo favorisce la crescita a parità di pressione fiscale complessiva. La ragione è che si ridurrebbe il cuneo fiscale, che entra nei costi di produzione, determinando un aumento delle remunerazioni al netto delle tasse. Ma questo spostamento di prelievo sarebbe anche utile alla crescita perché determina una “svalutazione fiscale”, poiché l’Iva non grava sulle esportazioni, mentre colpisce i consumi di beni e servizi importati in egual misura rispetto a quelli prodotti sul territorio nazionale. In tal modo si recupera competitività internazionale. Non è un caso, inoltre, che nell’economia globalizzata, per tassare localmente i profitti delle multinazionali, si stia valutando di prendere come riferimento le loro vendite nei vari Paesi. E anche nelle discussioni sulla tassazione delle ricchezze si mette in rilievo che quelle personali, in vario modo legalmente o non legalmente occultate, si riflettono nel livello di vita dei beneficiari
al momento del consumo.

Il fatto rilevante è che seguire questa strada permetterebbe oggi una riduzione del prelievo Irpef sui redditi medio-bassi doppio o anche triplo rispetto a quello di cui si discute e ciò faciliterebbe la definizione del “metodo” con il quale ridurre in misura percepibile l’imposizione diretta sulle classi di reddito medio e medio-basso. C’è da decidere, infatti, “come” operare la correzione e le sue dimensioni. In altri termini, vi è da una parte il problema di come finanziare la riduzione del prelievo Irpef e dall’altra il problema di definire la struttura del prelievo, il grado di progressività e come applicarla. Su questo secondo punto, il dibattito politico si è concentrato su due possibili alternative ben descritte, come hanno ricordato Paladini e Visco sul Sole del 30 giugno, nell’ottimo rapporto presentato in una audizione al Parlamento dal direttore generale del Dipartimento delle Finanze del Mef, la professoressa Fabrizia La Pecorella, e ben studiate nello stesso Dipartimento fin dal 2019. La prima alternativa consiste essenzialmente nella riduzione, da 5 a 3, del numero di aliquote applicate per scaglioni di reddito. La seconda ipotesi è quella di passare al cosiddetto modello tedesco, cioè disegnare una curva continua di aliquote marginali, che coinciderebbero sostanzialmente con quelle medie effettive, da applicare per ogni singolo livello di reddito. Avendo già preso posizione su questa rubrica a favore di questa seconda alternativa (15 agosto 2020), ne richiamo i motivi fondamentali. Le maggiori attrattive del modello tedesco risiedono nella sua trasparenza e nella sua flessibilità. Trasparenza perché ogni percettore di reddito saprebbe, senza fare calcoli personali, quale percentuale del suo reddito deve versare allo Stato, che è ben diversa da quella che si legge nella sua aliquota marginale. L’argomento di chi parla di complicazione “algoritmica” o matematica per la determinazione della curva delle aliquote è fuorviante perché il compito del calcolo è dell’amministrazione fiscale, e non è complicato perché basta decidere quale debba essere, mentre al contribuente verrebbe solo comunicata la percentuale effettiva del suo reddito che deve pagare. Quanto alla flessibilità, va considerata da un duplice punto di vista. Permette di decidere in modo mirato i livelli di reddito da beneficiare oggi con una riduzione di prelievo, disegnando con precisione la curva della progressività, ma permette anche con facilità di appiattire progressivamente, in futuro, la curva delle aliquote fino al livello desiderato di reddito. In altri termini, sarebbe facile spostare verso livelli superiori di reddito la progressività del prelievo dettato dalla Costituzione, man mano che l’equilibrio della finanza pubblica lo permetterà e secondo le scelte politiche discrezionali che sono alla base della democrazia. In ogni caso, deciso il metodo, l’importante è ridurre progressivamente in misura significativa la pressione fiscale sui redditi medi e medio-bassi. Lo si dice da decenni, almeno da quando l’inflazione alta fece lievitare i redditi nominali, ma non quelli reali, con la conseguenza che le aliquote concepite per redditi medio-alti finirono per colpire anche i medio-bassi. Il dibattito sul fiscal drag, come venne chiamato il fenomeno, fu intenso ma senza effetti rilevanti. La fame di gettito fiscale a fronte di spesa pubblica crescente, purtroppo non per investimenti, ha fino a oggi sempre collocato questa esigenza di correzione del prelievo nella cartella dei buoni propositi.

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