Nord Corea, business as usual ai tempi della bomba
di Angela Manganaro
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«I nordcorani mangerebbero erba piuttosto che rinunciare al programma nucleare» sosteneva Vladimir Putin a settembre. A distanza di quattro mesi l’iperbole di un leader che ha solo da insegnare in materia di “regime totalitario ostile all’America” non dovrebbe essere più tale. Dopo oltre dieci anni di sanzioni e il recente pacchetto Onu contro Pyongyang risultato di un 2017 passato a minacciare Sud Corea, Giappone e Stati Uniti con missili e test nucleari, i nordocreani dovrebbero in effetti essere ridotti alla fame. Non è esattamente così.
Solo a settembre, mese del test con bomba a idrogeno che sembra aver causato un terremoto, Pyongyang ospitava l’Autumn International Trade Fair con 250 imprese nazionali e straniere che mostravano i loro prodotti come in qualsiasi altro paese. I media di stato esaltavano la buona riuscita dell’evento elencando le imprese presenti di Siria, Cina, Cuba, Indonesia, Vietnam, Iran, Taiwan e Italia. Studiosi come il professor Stephan Haggard, esperto di politica economica nordcoreana all’University of California San Diego, confermavano a Bbc che queste fiere non sono la solita propaganda, si fanno davvero per affari, si espone perché c’è un mercato.
Il 23 dicembre le sanzioni Onu si sono fatte ancora più pesanti - è ora molto più difficile esportare petrolio in Nord Corea (tagli all’import fino al 90%) e impossibile importare cibo, macchinari, attrezzature elettriche. Eppure gli affari continuano a dispetto delle risoluzioni Onu e delle stesse misure decise dal governo cinese.
Sempre a settembre, folle mese in cui Kim Jong Un testava bombe e Pyongyang ospitava fiere, Putin teorizzava e Trump inventava «Rocket man», Pechino ordinava la chiusura delle joint venture fra imprese cinesi e nordcoreane entro 120 giorni a partire dal 12 settembre - misura che avrebbe riguardato soprattutto ristoranti e hotel. Il giorno entro cui chiudere questi contratti era dunque il 9 gennaio cioè una settimana fa, scadenza che «decine di aziende» hanno bellamente ignorato, ha detto un ex funzionario del Tesoro americano al Wall Street Journal. Aziende di Cina, Malesia, Singapore, Hong Kong, e di altri paesi continuano ad avere rapporti commerciali.
La formula delle joint venture offre una confortevole zona grigia per continuare a lavorare, niente di particolarmente sofisticato in verità non molto diverso dai miliardi di dollari l’anno che la Nord Corea continua a incassare col contrabbando di sigarette - dettagli che difficilmente troveranno spazio nelle dichiarazioni del vertice sul nucleare nordcoreano oggi a Vancouver.
In effetti quando si parla di sanzioni difficilmente si scende nei dettagli, chi lo facesse scoprirebbe categorie di aziende non colpite da divieti, ad esempio quelle che forniscono infrastrutture di servizio pubblico che non generano profitti. Si scopre così che colossi come Orascom di Naguib Sawiris, magnate egiziano con passaporto americano, continuano a operare in Nord Corea grazie a una joint venture con le Poste nordcoreane nel completo rispetto delle risoluzioni Onu.
Un portavoce di Orascom sostiene che così si rende «un importante servizio» ai nordcoreani. «Permettere al popolo di comunicare è una buona cosa» ha detto Sawiris, il quale certo è coerente. Ai tempi della primavera araba e della rivoluzione di piazza Tahrir esplosa in piazza e su internet fu un volto dell’élite egiziana che appoggiò convinto la protesta, anche se poi sappiamo com’è andata a finire.
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