Nucleare, così a Matera viene alla luce il mistero del Monolito di scorie Usa. Il video
Nel centro ricerche Itrec dopo mezzo secolo la Sogin estrae dal sottosuolo il colossale blocco cementato di rifiuti rarioattivi della centrale di Elk River. La tecnologia sarà esportata per smantellare gli altri depositi simili realizzati 50 anni fa nel mondo
di Jacopo Giliberto
6' di lettura
Il monolito illuminato da fari potenti esce dallo scavo nel sottosuolo sollevato da una gru speciale.
Attorno, una piccola folla di scienziati e di supertecnici con le tute candide, i dosìmetri sul petto misurano la radioattività, gli elmetti bianchi; si muovono lenti; qualcuno di loro scatta fotografie. Qualcosa — non capisco che cosa — ronza su tutto un sibilo acutissimo che pare il Lux Aeterna di György Ligeti.
Mercoledì 18 alle 11 la Sogin, la società pubblica della gestione e dell’uscita dal nucleare, ha rimosso il Monolito di scorie radioattive che da mezzo secolo era sepolto nella Fossa Irreversibile 7.1 del centro ricerche Enea in contrada Trisaia, comune di Rotondella, provincia di Matera.
La fossa era nata Irreversibile, per seppellire per sempre in aeternum quelle scorie atomiche, e invece con le tecnologie italiane quel materiale torna Reversibile.
Per chiudere con Elk River
Certamente, non è chiusa del tutto la storia antica e sospettosa delle barre di uranio-torio della centrale nucleare statunitense di Elk River; ma la vicenda — rimasta cupa per anni — ora è uscita dal terreno, alla luce del sole, ogni cosa è illuminata.
Il processo di decontaminazione costerà in tutto 12 milioni su un piano complessivo di “decommissioning” dell’eredità nucleare italiana che potrebbe costare 7 miliardi.
L’operazione è stata condotta dal direttore dell’impianto, Vincenzo Stigliano, ingegnere; vi hanno assistito Emanuele Fontani e Luigi Perri, da una settimana scelti all’incarico di (nell’ordine) amministratore delegato e presidente della Sogin.
La soluzione ingegneristica adottata dalla Sogin, realizzata con competenze esclusivamente italiane, non ha precedenti nel mondo e potrà essere esportata anche in altri Paesi: come la Fossa Irreversibile 7.1, si contano nel mondo una cinquantina di altri monoliti irreversibili simili, realizzati per inglobare le scorie nucleari quando, mezzo secolo fa, non c’era altra soluzione che sotterrarle e gettarvi sopra calcestruzzo.
Il manufatto
Il Monolito è un rettangolone di calcestruzzo con una massa di 130 tonnellate e un volume di 54 metri cubi. Si trovava a 6,5 metri di profondità dal piano campagna e al suo interno, suddivisi in quattro pozzi a sezione quadrata, vi furono immersi fusti con rifiuti a media radioattività, inglobati in malta cementizia, derivanti dall’esercizio dell’impianto nucleare Itrec.
Cinquant’anni di storia
La storia dell’Itrec di Rotondella e del Monolito nasce all’inizio degli anni ’60 sulle prime colline dove il Sinni sfocia nello Ionio; era l’antica città greca di Siris dalle cui alture si domina la piana di Metaponto dove visse il più famoso matematico dell’antichità, Pitagora, quello del teorema (in
ogni triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente eccetera).
Emilio Colombo, di Potenza, era il potentissimo ministro democristiano dell’Industria; Colombo mise un dito sulla carta geografica della Basilicata e disse: qui.
Il punto della mappa su cui s’era posato il dito di Emilio Colombo era Rotondella, addosso alla piana costiera.
Sotto quel dito il Cnen, il Comitato nazionale energia nucleare che poi divenne l’Enea, realizzò il centro ricerche nucleari Itrec della Trisaia per sperimentare nuove tecnologie con cui trattare i rifiuti atomici.
Quale migliore sperimentazione delle barre innovative di uranio-torio usate da Elk River?
(Spoiler: un esperimento riuscito male)
(Spoiler: sebbene il torio sia largamente disponibile, le centrali sperimentali uranio-torio non ebbero evoluzione e si consolidò invece la tecnologia uranio-plutonio, usata anche con finalità militare. Per quei tempi era difficilissimo trattare le barre usate di combustibile al torio. Oggi però il torio potrebbe avere nuovo rilancio e la Sogin sta sperando di piazzare all’estero quelle barre inutilizzabili di combustibile).
Le scorie lasciate da Elk River
Dagli Usa arrivarono 84 barre di combustibile nucleare, e gli scienziati del Cnen provarono a condizionarli per il loro smaltimento.
Il risultato fu deludente.
Venti barre furono trattate e diventarono 3 metri cubi di rifiuti atomici liquidi inavvicinabili.
Altre 64 sbarre furono messe in un vascone speciale pieno di acqua in attesa di una tecnologia.
Altre scorie, a bassissima attività ricche di isotopi che dimezzano velocemente in poche decine d’anni, furono sepolte in una trincea.
Nella Fossa Irreversibile
E infine, il grande Monolito.
I tecnici scavarono una fossa profonda sette metri, vi misero una cassaforma di cemento armato divisa in quattro settori, la chiamarono Fossa Irreversibile 7.1 (Irriversibile va inteso nel significato letterale, una
volta fatta non si torna più indietro) e cominciarono a rovesciarvi dentro le scorie.
I càmici contaminati, i puntali terminali delle barre di combustibile, le resine dei filtri della piscina del combustibile, gli attrezzi irraggiati. Queste scorie venivano messe in bidoncini da 50 litri oppure in fusti petroliferi da 159 litri, sigillato il coperchio con la saldatrice, e giù nella fossa. Poi si gettava calcestruzzo, e si ricominciava riempiendo lo strato superiore.
Così negli anni il Monolito è stato riempito a tappo con il cemento mescolato alle scorie a bassa e media radioattività, con qualche pezzo più pericoloso. E poi è stato chiuso e lasciato lì.
Come si faceva una volta
«Che vuole, non c’erano tecnologie e in tutto il mondo si faceva così», commenta l’ex direttore dell’impianto Edoardo Petagna, fisico, esperto di radioprotezione.
Per ridurre i rischi di contaminazione e di trafugamento, le scorie venivano tombate, vi si colava sopra il cemento, si rendeva inaccessibile. Le scorie a bassissima attività, tempo di dimezzamento in 20-30 anni, venivano sepolte in trincee come quella che c’è poco più in là nell’Itrec di Rotondella, e queste trincee sono comuni nei siti nucleari francesi, per esempio, ma anche in Italia ve ne sono altre tre e si trovano a fianco della centrale atomica smantellata del Garigliano (Sessa Aurunca, Caserta); due di esse sono già state risanate e per la terza è in corso la decontaminazione.
Come si fa oggi
Oggi si fa il contrario. Invece di nascondere e rendere inaccessibile, i rifiuti sono collocati in strutture ispezionabili, affinché siano disponibili per le tecnologie future quando arriveranno.
Ovvio, i depositi sono capannoni blindatissimi, protetti da reticolati, guardie armate, schermature contro attacchi aerei. Ma sono capannoni posati sopra il terreno, e dentro vi sono scaffalature su cui i fusti corazzati vengono allineati con i codici a barre affinché i materiali siano sempre tracciabili e rintracciabili.
Non si vede che cosa succede
L’abbandono in stile antico è un problema. I piedi del Monolito, sepolti a 6 metri di profondità, sono lambiti dalle acque di falda.
Le acque sono controllate e non hanno segnalato contaminazioni, ma che cosa accadrà in futuro?
Ci sono fessurazioni nel manto di calcestruzzo?
L’acciaio dell’armatura è in condizioni accettabili?
Inoltre, finché rimane il Monolito il terreno sopra di esso non può essere usato in altro modo, e serve spazio per un impianto necessario a cementificare le altre scorie di Elk River.
I lavori condotti dalla Sogin
Il sollevamento e l’estrazione del Monolito, tagliato in quattro fette, è l’ultima fase dei lavori che consentiranno di procedere alla bonifica e al rilascio dell’area della Fossa 7.1.
I quattro elementi rimossi sono stati trasferiti in massima sicurezza in un deposito del sito per il loro stoccaggio temporaneo.
La prima fase dei lavori ha riguardato una serie di attività di preparazione. È stato scavato il terreno attorno al Monolite, per metterlo a nudo, e le pareti della fossa di terreno sono state palificate con una barriera; sulla fossa è stato posato un tetto. Sono state condotte “radiografie” dentro al Monolito per scoprire dove nel cemento fossero immersi i fusti di scorie . Poi il manufatto è stato incapsulato in una corazza d’acciaio, e il manufatto è stato tagliato in cinque fette, cioè il piede e quattro fettoni. Come è naturale, tutte le attività che la Sogin svolge sono autorizzate e vengono vigilate da autorità ed enti, locali e nazionali, preposti a sovrintendere e a sorvegliare, ciascuna per la propria competenza, i lavori di smantellamento e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi presenti negli impianti.
Dalla collina della Trisaia
Il centro ricerche Itrec della Trisaia si affaccia sulla statale 106 Ionica, chilometro 419+500, con una palazzina di architettura depressiva . Sulle collinette ombreggiate da olivi si distribuiscono i diversi edifici dedicati ai vari temi di ricerca: agronomia, fonti rinnovabili, biotecnologie, nuovi materiali e così via.
Ci sono anche diversi ritrovamenti archeologici, allestiti con attenzione scientifica.
Sulla collinetta più alta c’è il cuore del centro Itrec; la gestione non è più dell’Enea e passa alla Sogin e cominciano le recinzioni doppie e blindate, i controlli prima severissimi diventano capillari, i reticolati, i rilevatori di radioattività in entrata e in uscita.
Lì dentro ci sono i depositi nucleari.
Dalla collina atomica si vede, in basso, la campagna ricca di aranceti pregiati e le colture di fragole esportate in mezz’Europa. Nascono in questa piana di Metaponto i fragoloni di forma allungata e dal sapore più intenso.
I sapori qui sono sempre intensi, come il falaone — un calzone ripieno di verdure — o il pastizzo ripieno di carni (la più apprezzata è quella di agnello) cui in agosto è dedicata una sagra che attrae migliaia di persone da tutta la Basilicata e non solamente.
Se dalla collina si guarda in lontananza, ecco il profilo delle case di Metaponto dove Pitagora insegnava la conoscenza; si intuisce quella Scanzano Jonico che nel 2003 insorse contro l’ipotesi di scavare in contrada Terzo Cavone un deposito atomico nel solidissimo e sicurissimo sottosuolo.
Dallo Ionio soffia uno scirocco carico di sale.
I tecnici in camice bianco, elmetto candido, si mettono in posa davanti al Monolito grigio estratto dalla fossa; scattano selfie.
Ne sfiorano la superficie liscia con i guanti (chiedo: ma non è radioattivo? Lui guarda i numeri rilevati dal dosìmetro e risponde: abbastanza radioattivo, dopo pochi minuti di esposizione si supera la soglia tollerabile), e noi scimmie adoranti attorno al Monolito nero della tecnologia atomica.
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