Interventi

Nuove competenze per rimettere in circolo le idee dei lavoratori

di Elena Granata e Andrea Granelli

(alphaspirit - stock.adobe.com)

4' di lettura

A lungo gli uffici hanno mantenuto un assetto pressoché immutabile: poco più di un sistema di scatole dove il problema più complesso era quello di spostare qualche scrivania. Un’attività elementare di cui si poteva occupare qualsiasi capo ufficio dotato di buon senso. Le imprese più evolute affidavano questo compito a società di architetti. Un immaginario da “megaditta” entrato ormai negli scaffali dell’archeologia aziendale.

Negli ultimi anni molti manager di grandi società si sono convinti che il problema dell’organizzazione degli spazi di lavoro si potesse risolvere con una loro radicale rimodulazione. E così hanno iniziato a togliere le inutili le pareti divisorie e a fare piazza pulita di scrivanie, cassettiere, armadietti, spazi chiusi; per qualche anno, ogni traccia residua di privacy è stata messa al bando, obsoleta espressione del capitalismo chiuso che fu; anche le sale riunioni si sono ridotte e sono diventate più simboliche che funzionali.

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L’open space è parso la panacea liberatrice dalle gabbie di un’organizzazione aziendale rigida e desueta. Spazi fluidi, tempi fluidi, lavoro su mansioni, timidi esperimenti di lavoro agile o smart working. La nuova frontiera dell’organizzazione del lavoro nelle multinazionali è passata spesso attraverso una radicale sovversione degli spazi.

In un primo momento si sono mosse le grandi società americane del digitale, poi le aziende creative, infine banche, assicurazioni e istituzioni. Hanno rimesso mano non solo ai loro spazi di rappresentanza, ma anche agli uffici del personale, acclamando la trasformazione degli assetti fisici come la più grande rivoluzione dagli anni Sessanta.

L’esito è stata un’assoluta indifferenza tra scena e retroscena: tutto è scena, tutto è ribalta, tutto è scambio e relazione. Le persone hanno faticosamente imparato a lavorare in un unico grande spazio indiviso, senza fratture visive, senza separazioni, con pavimenti continui sgombrati da ogni possibile orpello e inciampo, con piccole stanze più raccolte destinate ai manager, interamente trasparenti. Tutto visibile, tutto a vista, tutto perfettamente ordinato, tutto di tutti e nulla di nessuno.

Questa trasformazione degli spazi di lavoro ha riguardato il design degli interni, entro un assetto urbano sostanzialmente stabile e senza stravolgere il sistema delle vite delle persone, ancora legate al tragitto casa-ufficio e ritorno.

La pandemia ha inferto un colpo fatale a quell’impianto di lavoro (in fondo lo stesso sia nella versione uffici-a-scatole che in quella open space), costringendo a casa milioni di persone. Sono venuti meno i luoghi stessi del lavoro e il loro senso. È venuta meno l’unità di tempo e di luogo del nostro essere lavoratori: possiamo lavorare in qualunque momento e da qualunque luogo.

Ovviamente questo pone problemi di ordine organizzativo non solo sul fronte delle vite personali, ma anche su quello della vita collettiva di tutta l’azienda e – se non adeguatamente gestito e monitorato – può minare (e in parte lo sta già facendo) anche l’efficacia complessiva del lavoro, il benessere delle persone e il senso di appartenenza all’impresa.

In una prima fase le aziende hanno pensato che si trattasse di organizzare modalità di lavoro temporanee e tutta l’attenzione è stata rivolta a come facilitare il lavoro “da qualunque altro luogo”, fornendo attrezzature digitali e imparando ad abitare le piattaforme di comunicazione e lavoro a distanza.

Ma passare dallo smart working a un working smart non è automatico né semplice. Non basterà aggiungere nuovi strumenti digitali, dovremo ripensare l’idea stessa di azienda come una “piattaforma relazionale e informativa” che deve tenere insieme, organizzare, facilitare attività di natura diversa. Una piattaforma capace di integrare le tre dimensioni dello spazio lavorativo: quella strettamente spaziale (casa-ufficio-città), quella che ha a che fare con la relazione tra spazio fisico e spazio digitale, quella che armonizza la domanda di spazio personale e l’esigenza di spazi condivisi.

Questo cambiamento radicale dei nostri modi di lavorare destabilizza e stimola il ruolo e le competenze di manager e uffici delle risorse umane, costringendoli a passare da una modalità bidimensionale – saper organizzare al meglio le attività di un personale stabile entro spazi e tempi definiti – a una logica tridimensionale che ospiti spazi/tempi/relazioni, anche eterodosse (che a ben vedere sono il cuore dell’open innovation), per spingere un’innovazione senza confini autenticamente eco-sistemica.

Se fino a ora la gestione e l’organizzazione degli spazi poteva essere in qualche modo delegata a tecnici e designer di interni, perché si trattava di ridefinire solo la funzionalità spaziale, oggi si configura una vera e propria competenza di placemaking (cfr. Granata, Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo, Einaudi, 2021) o di place-design.

È una nuova abilità manageriale che richiede ai team leader di saper organizzare al meglio il lavoro della propria squadra (sempre più multi-locata) all’interno delle 3 dimensioni dello spazio, ma sapendosi anche muovere con agilità, grazie alle nuove piattaforme digitali – nella bidimensionalità del tempo: considerato non solo come sincrono, ma anche come asincrono. E ciò grazie a una “digilità” – un’abilità, ma anche un’agilità digitale – che è competenza sempre più indispensabile per guidare il lavoro ibrido senza farsi travolgere. Un aspetto confermato da una recente ricerca diventata libro per i tipi di Harvard Business Review (cfr, Chinotti e Granelli (a cura di), I tre nodi dell’Hr: digilità, umanità, spazialità, Harvard Business Review/Strategiqs, 2021) che ha visto coinvolti una settantina fra direttori delle risorse umane, amministratori delegati, head hunter e formatori.

Si tratta dunque di sviluppare competenze progettuali che hanno come obiettivo di consentire alle persone di ottenere insieme quello che da sole non potrebbero mai raggiungere, ma in forme e tempi diversi dal passato.

Serviranno allora luoghi di lavoro ibridi e flessibili, ma anche capaci di ospitare quel lavoro protetto e privato (la riscoperta dello spazio intimo della privacy) che il “lavoro da qualsiasi luogo” rende difficile alle persone.

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