Nuove politiche economiche per una nuova ue
di Federico Carli e Rainer Masera
4' di lettura
Il voto del 12 dicembre nel Regno Unito impone una riflessione sull’intera vicenda Brexit (dove Irlanda del Nord e Scozia restano problemi aperti) e sullo stato dell’Unione europea.
Secondo la visione tradizionale, suggerita dai media continentali e quasi unanimemente condivisa, la Gran Bretagna ha sempre avuto un atteggiamento critico, di superiorità e di diversità rispetto all’Europa.
Il Regno Unito non avrebbe mai creduto nel processo di integrazione in Europa. L’adesione, con ritrosie, ritardi e molte richieste alla Comunità e poi alla Ue, sarebbe stata motivata da considerazioni opportunistiche: godere dei vantaggi del mercato integrato (un porto franco ai margini dell’Europa), assicurare alla City un ruolo pivot nei mercati bancari e finanziari europei e mondiali, mantenere il ruolo di cerniera tra Usa e Ue. Comunque, si affermava, l’opinione pubblica era sempre stata contraria al processo di integrazione. Al riguardo, si trascurava che il primo referendum della storia del Regno Unito, tenuto il 5 giugno del 1975 con il premier laburista Harold Wilson, aveva chiesto all’elettorato: «Do you think that the Uk should stay in the European Community?». Il sì aveva vinto con quasi il 70 per cento.
Coerentemente con questa visione convenzionale di sospetto e di sfiducia, l’ipotesi Brexit veniva vista con preoccupazione, ma nel convincimento che gli effetti negativi si sarebbero ritorti sul Regno Unito. L’uscita della “perfida Albione” avrebbe aiutato a fare chiarezza nell’Unione anche sotto il profilo politico.
Ci permettiamo di offrire una prospettiva diversa, con due flashback (1939-1949), sul ruolo chiave del Regno Unito per l’Europa di oggi.
Il primo flashback parte dal 1939 e dall’avvio della Seconda guerra mondiale. Il 23 agosto di quell’anno, Ribbentrop e Molotov firmano un patto di non aggressione tra Germania e Urss. In realtà, un patto segreto tra i due Paesi prevedeva la divisione dell’Europa in due zone di influenza, sotto il controllo della Germania nazista e dell’Urss comunista. La strumentalità del patto per la Germania fu evidente: il 1° settembre 1939, Hitler invade la Polonia e ne avvia l’annessione.
È il Regno Unito a mantenere fede agli impegni: il 1° settembre chiede alla Germania di rispettare lo Stato polacco. La richiesta rimane senza risposta: il 3 settembre la Gran Bretagna alle 11,15, e poco dopo la Francia, dichiarano guerra alla Germania. Il 17 settembre inizia l’invasione da Est della Polonia da parte dell’Urss. La Germania e l’Unione Sovietica si spartiscono la Polonia con il Trattato di frontiera sovietico-tedesco. Plaudono in Italia i giornali conformisti, spiegando ai lettori che «all’edificazione e alla liberazione dell’Europa l’Italia non sarà estranea».
È solo l’impavida risolutezza della resistenza britannica – quando agli inizi della guerra, dopo la resa francese, il Regno Unito, di fatto da solo, si oppose e combatté Hitler – che consentì di salvare l’Europa. Chamberlain e Churchill, i successivi primi ministri, ebbero un ruolo fondamentale.
Il secondo flashback si colloca fra il 1946 e il 1949 e vede Churchill come grande protagonista a favore dell’Europa. Siamo all’Università di Zurigo il 19 settembre del 1946. Per la prima volta dopo la guerra un grande statista propone la creazione degli «Stati Uniti d’Europa» e spiega importanza e urgenza di questo obiettivo: «If we are to form a United States of Europe... we must begin now».
Il Regno Unito sostenne l’istituzione di un Consiglio d’Europa come primo passo verso un’Europa confederale. Nel 1948 si tenne all’Aja una riunione con 800 delegati di tutti gli Stati europei. Churchill partecipò come presidente onorario di questo primo grande Congresso dell’Europa. Si prese la decisione di creare il Consiglio, traguardo realizzato il 5 maggio 1949.
Siamo al 12 dicembre 2019. La disaffezione nutrita dai britannici verso le istituzioni comunitarie dipende anche da alcuni errori commessi a Bruxelles e nelle principali capitali europee, non da preconcetta ostilità. Ci sono almeno tre ordini di problemi che possono spiegarne le ragioni.
Il primo nasce quando si passa dal Sistema monetario europeo alla creazione della moneta unica. Prima l’Italia e poi la Grecia si presentano all’appuntamento con un debito pubblico fuori linea rispetto ai parametri concordati, rendendo impossibile procedere all’unificazione fiscale e politica. Questa era stata indicata come sbocco necessario per la sostenibilità del progetto di edificazione europea da parte del presidente Mitterrand e del cancelliere Kohl. La ormai nota zoppia.
La seconda questione attiene alla demografia. Secondo l’Onu il mondo dovrebbe passare da 7,6 miliardi di persone oggi a 11,2 miliardi nel 2100. Il 90% dell’incremento totale della popolazione avverrà in Africa, da 1,3 a 4,5 miliardi di persone (pur prevedendo circa 100 milioni di emigrati negli 80 anni considerati). Le prime tre città del mondo sarebbero Lagos, Kinshasa e Dar-es-Salaam con 88, 84 e 74 milioni di persone. Secondo le stesse previsioni, l’Europa scenderebbe a 653 milioni (l’unica area a mostrare un decremento). Sono numeri che richiederebbero una riflessione e la ricerca congiunta di soluzioni appropriate: che non possono dipendere da immigrazione incontrollata e su scala sconosciuta. La questione si interseca con i temi del global warming e della sostenibilità ambientale, che dovrebbero essere esaminati congiuntamente in un progetto mondiale che abbia la Ue quale capofila.
Il terzo problema concerne lo schema di politica economica adottato in Europa negli anni recenti. È sbagliata, forse pericolosa, l’idea che la diminuzione progressiva del prezzo del denaro basti a risollevare un’economia depressa. Ciò è confermato dall’impotenza del quantitative easing della Bce a riportare l’inflazione al 2% e a sostenere la domanda interna dell’area euro in assenza di una coerente politica di bilancio. Tassi d’interesse prossimi allo zero e negativi non sono in grado di riattivare gli investimenti privati quando prevale il pessimismo sulle prospettive di profitto – e offrono argomentazioni a coloro che continuano a comprimere gli investimenti pubblici e a perpetuare i propri (e altrui) surplus di bilancio e dei conti con l’estero. È il mix delle politiche economiche che va modificato nell’Euroarea, con cambiamenti nel patto di crescita e stabilità. Si tratta di investire in “buone” infrastrutture fisiche e di capitale umano, per l’innovazione, l’ambiente e le regioni meno prospere. Superando l’inaccettabile (per il Regno Unito) neomercantilismo prevalente in alcune cancellerie del continente, si favorirebbe il rilancio di accumulazione, produttività, crescita sostenibile a tutela dei cittadini.
Purtroppo, contrariamente a un convincimento figlio della saggezza convenzionale oggi dominante, sormontare i limiti della governance europea senza la Gran Bretagna sarà più difficile.
loading...