Odio e violenza social: i casi in cui si rischia il carcere
In rete le principali tipologie di reato sono la diffamazione, l'estorsione, lo stalking, la nuova fattispecie del cyber-bullismo: dallo scorso anno è diventato applicabile il nuovo Regolamento Europeo sulla protezione dei dati personali (GDPR) che aumenta gli strumenti a tutela delle vittime. Ad esempio gli insulti a Carola Rackete sono punibili con la reclusione fino ad un anno ed è una condotta aggravata nei casi un cui il reato sia commesso tramite stampa o web
di Biagio Simonetta
3' di lettura
Odio, violenza, revenge porn. E le donne nel mirino. Siamo davanti al lato oscuro dei social network, che quotidianamente fa registrare numeri sconcertanti (solo su Twitter 40mila attacchi contro le donne negli ultimi tre mesi). Ma cosa succede dal punto di vista legale? Quali sono le conseguenze per chi, convinto che dietro a uno schermo tutto sia lecito, commette veri e propri reati.
Anna Italiano, avvocato specializzata in diritto dell’informatica e delle telecomunicazioni, ci aiuta a capire. «L’iper-connessione e l’estrema rapidità e facilità con cui i dati viaggiano in rete – racconta al Sole24ORE - hanno progressivamente eroso i confini tra vita pubblica e vita privata, creando, anche dal punto di vista della tutela dei diritti dell’individuo, dei rischi nuovi, del tutto sconosciuti anche fino solo ad un decennio fa, di cui gli utenti non sempre sono consapevoli».
Lo scorso anno è diventato applicabile il nuovo Regolamento Europeo sulla protezione dei dati personali (GDPR), che è una normativa «profondamente “tecnologica”» secondo la Italiano. Gli strumenti di tutela, dunque, esistono. Il vero problema da cui nascono i casi più spinosi (come sex extortion o revenge porn, che arrivano a prostrare ed umiliare la vittima al punto talora di indurla al suicidio), secondo il legale di Partners4Innovation «è la scarsa educazione digitale e la scarsa consapevolezza nell’utilizzo delle tecnologie e delle conseguenze delle proprie condotte digitali. Occorre acquisire consapevolezza del fatto che modo reale e mondo virtuale non sono sfere distinte, ma che, al contrario, ognuno di noi ha, al giorno d'oggi, un'identità digitale che acquista un ruolo sempre più importante nella vita reale».
Ma come può difendersi una vittima da un attacco via social? «Innanzitutto, - dice Anna Italiano - è bene circoscrivere quali possano essere le fattispecie di reato, realizzabili tramite strumenti digitali, che possono colpire una donna oggigiorno. Le principali sono senz'altro la diffamazione, l'estorsione, lo stalking, la nuova fattispecie del cyber-bullismo recentemente introdotta dal legislatore, il “revenge porn”, su cui allo stato esiste una proposta di legge, nonché l'accesso abusivo ai sistemi informatici (come possibile atto propedeutico alla commissione delle fattispecie di reato precedenti)».
Per garantire una difesa adeguata contro questi “reati digitali” o commessi tramite strumenti digitali «requisito indispensabile è che la notizia di reato giunga alla Procura della Repubblica». Ciò può avvenire «tramite una denuncia, oppure una querela. Senza addentrarsi in eccessivi tecnicismi, la denuncia può essere sporta da chiunque abbia notizia di un reato perseguibile d'ufficio, mentre la querela solo dalla persona che ha subito il reato. È possibile presentare denuncia e querela sia direttamente alla Procura in Tribunale, sia alla polizia o ai carabinieri (in questo caso, anche oralmente)». Nella fase delle indagini preliminari - e quindi ancor prima dell'inizio del processo - «il pubblico ministero potrà tutelare in via anticipata la donna vittima di alcuni di questi reati tramite il sequestro preventivo, misura cautelare che permette l'oscuramento delle pagine web tramite le quali si è stata integrata la fattispecie di reato».
E cosa rischia, allora, chi commette reati online, come revenge porn, insulti, stalking, minacce?
«Le condotte citate – risponde il legale - sono a tutti gli effetti fattispecie criminose che hanno rilevanza penale, anche se spesso non si è consapevoli di questo, e il fatto che le condotte vengano poste in essere in una realtà virtuale anziché nel mondo reale non vale ad attenuarne il disvalore. Al contrario, in talune circostanze può addirittura configurare un'aggravante. Se pensiamo, infatti, alle potenzialità delle tecnologie sotto il profilo del grado e della velocità di diffusività delle informazioni, nonché sotto il profilo dell'ampiezza dei possibili destinatari, ci rendiamo subito conto di come, solo per fare un esempio, una condotta di ingiuria o di diffamazione effettuata tramite mezzi digitali potrebbe rivelarsi esponenzialmente più lesiva della corrispondente condotta effettuata con modalità “tradizionali”».
Il punto è sempre lo stesso: dietro a un monitor si tende a ritenere - erroneamente - che nel mondo virtuale chiunque possa agire impunemente, senza alcuna ripercussione. Le conseguenze, invece, come sottolinea Anna Italiano «esistono, e hanno in talune ipotesi anche carattere penale, comportando nei casi più gravi la pena della reclusione». A proposito degli insulti via social, di cui è stata vittima per ultima Rakele Carola, comandante della SEA Watch, si entra nel campo della diffamazione. «Questa tipologia di reato – commenta il legale, consulente di P4I - può essere punita con la reclusione fino ad un anno ed è aggravata nei casi un cui il reato sia commesso tramite stampa o web». Alla base, come sempre, deve esserci un'azione di denuncia.
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