Societa

Oggetti e progetti premiati da chi ama e produce design

di Stefano Salis

3' di lettura

Certo, la 500 di Dante Giacosa la conoscono tutti ed è la quintessenza del boom, dell’Italia, della felicità a portata di mano. Molti hanno avuto per casa una lampada Eclisse di Magistretti, o la Parentesi di Castiglioni. La Lettera 22 di Nizzoli è addirittura mitica, una penna Tratto Clip è capitata in mano a tutti. Ma la collezione del Compasso d’Oro, dal 1954 il riconoscimento internazionale più importante, sorta di Oscar del design, non è fatta solo di oggetti che risultano familiari, sono famosi o semplicemente belli. Il Compasso d’Oro è una sequenza di prodotti e progetti (e, ovviamente, persone) che, negli anni, è stato riconosciuto da chi ama, produce, pensa e lavora nel design per la sua valenza in molti ambiti e che ha inciso nelle abitudini palesi e nascoste, non solo degli italiani (ma non è un caso che questo premio nasca qui: evidenzia la qualità del made in Italy e il nostro modo di abitare e vivere), ma di tutto il mondo. Non vale il principio di transitorietà; ci sono oggetti iconici e perfetti dal punto di vista del design che non possono fregiarsi del titolo e altri che lo hanno ma non sono più servibili (un esempio: il megacalcolatore Elea Olivetti di Sottsass). Il fatto che mancasse ancora un museo che radunasse questo bendidio di progetti era una delle incongruenze più tipiche dell’Italia (e oggi la città che ha già il Salone e la Triennale cala un tris irripetibile): altri Paesi, con un decimo della sapienza del design italiano, lo avrebbero costruito e venerato da tempo. Ma ora che c’è non va celebrato per il suo, innegabile, valore storico; anzi va preso come monito e memento al futuro che ci può attendere. Perché serva a far capire quanto ci sia d’esempio una stagione di bellezza, e utilità, che ha saputo interpretare il tempo e modificarlo. Una realtà ancora possibile per l’ingegno dell’industria italiana, pur in un mondo globalizzato. Il Compasso d’Oro, nato dal genio di Gio Ponti, riconosce ed esplicita il processo valoriale che il design imprime al mondo della produzione e alla società in modo trasversale, ma vale anche il discorso opposto. Ecco perché nella collezione storica ci sono oggetti “comuni” e molti che tendiamo a non vedere: interruttori e forni industriali, forbici per bonsai e posate, gli impermeabili (alla Paolo Conte) e gli scarponi, condizionatori e biciclette, orologi e lampioni, maniglie e libri. Un catalogo di presenze che hanno fatto il Novecento, conferendo carattere, funzionalità ed eleganza. Ecco, nel 1962, viene premiato un progetto di Gino Valle (il «teleindicatore alfanumerico»). Motivazione eclatante e profetica: «Per l’intensità della soluzione progettistica che si risolve in una straordinaria semplicità ed evidenza estetico-segnaletica. Il problema della comunicazione diretta di informazioni a distanza umana è risolto in modo che ogni elemento contenga in sé (e pertanto condizioni) il livello delle possibilità estetiche dell’insieme che lo conterrà». Di cosa si tratta? Dei tabelloni di aeroporti e stazioni, numeri e lettere che si compongono ruotando, inventati da Solari, piccola azienda friulana finita dritta al Moma e in tutti gli aeroporti del globo. Quando quelle palette bianche magicamente ruotavano componendo sul tabellone nero, con una sinfonia frusciante, destinazione e orario del viaggio era lo stesso sogno italiano che si metteva in moto: ed è la cifra esatta della nostra (speriamo non perduta) creatività. Il compasso puntato sullo Stivale su cui ruotano identità, orgoglio, senso del bello. Tradizione e futuro.

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