UNO SCRITTORE E IL SUO LUSSO

Oggetti evocativi: l'effetto madeleine funziona anche per un collezionista di ossa

Una chitarra acustica, un quadro, un orologio. Sono amuleti che ci riportano in tempi e luoghi diversi. Impossibile separarsene, anche per la storia che raccontano.

di Jeffery Deaver

4' di lettura

Se devo pensare a un oggetto che mi è particolarmente caro e che ha segnato la mia vita, direi sicuramente una chitarra acustica Martin. Ho risparmiato a lungo prima di potermela permettere: le chitarre Martin sono le più costose sul mercato. Non ricordo l'importo esatto, ma ammontava di sicuro a centinaia di dollari. Io ero un ragazzo, quindi fu un vero sacrificio. Ho lavorato tutti i giorni della mia vita da quando avevo 15 anni: quindi si potrebbe dire che, all'epoca, quella chitarra rappresentava per me una vita di lavoro. Ne ero letteralmente rapito: la adoravo sia per il suono che emetteva quando pizzicavo le sue corde sia per la gioia autentica che si irradiava in tutto il mio corpo e nella mia mente quando la suonavo.

Ma non si trattava soltanto di questo. Il suo acquisto si accompagnò a un momento particolarmente importante e difficile della mia vita: l'anno in cui mio padre morì inaspettatamente. Perciò ho sempre associato quello strumento a lui, alla persona che è stata e non me ne sono mai separato. La conservo ancora oggi. Il modello preciso è Martin D-45, realizzata con due tipi di palissandro, brasiliano e indiano, mentre la tavola è in abete. È una chitarra acustica e ha corde in acciaio. Ho vissuto in molti posti diversi da quando l'ho acquistata nel 1972, ma la chitarra ha sempre viaggiato con me. C'è una crepa sulla superficie, ma non mi interessa, non fa che aggiungerle personalità.

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Non saprei dire precisamente quanto tempo serva agli oggetti per appartenerci nel senso più profondo. Mi sembra che alcuni vengano recepiti subito come amici, sviluppiamo con loro un legame immediato. Ad altri ci avviciniamo invece con più circospezione, a poco a poco. In occasione di un viaggio che ho fatto a Singapore, ho acquistato un quadro che mi piaceva, anche se c'era qualcosa che non mi convinceva fino in fondo. Col tempo, a forza di vedermelo in casa, ecco, mi ci sono affezionato: è un dipinto astratto che potrebbe rappresentare un vasto orizzonte aperto su un terreno incerto. Forse il suo significato allude alla speranza. Adesso farei un'enorme fatica a separarmene. Ma c'è un altro quadro a cui sono legato e di cui - questo è sicuro - non potrei mai privarmi, e non certo per il suo valore di mercato o per la qualità della mano che l'ha realizzata. È piuttosto perché sulla tela sono raffigurati i miei tre cani, che oggi non sono più con me, qui in North Carolina. L'ha dipinto una pittrice dilettante, una studentessa di Belle Arti, la figlia di un uomo che si occupava della manutenzione del cortile della nostra casa.

Devo riconoscere che, anche nella scrittura e nei libri, gli oggetti possono dare una spinta al ritmo e al contenuto della narrazione, mi riferisco in particolare a Il Falcone Maltese di Samuel Dashiell Hammett, al ruolo centrale che hanno le lettere di transito per il protagonista del film Casablanca, all'anello ne Il Signore degli Anelli e, ancora, alla slitta in Quarto Potere. E per restare a me, alle ossa ne Il collezionista di ossa, il romanzo che mi ha fatto conoscere nel 1997. Come ho scritto in quel libro, le ossa sono affascinanti perché rappresentano l'immortalità, sono ciò che rimane dopo che il resto della vita e il corpo se ne sono andati. Possono durare per sempre. Mi piace che i miei libri siano gotici e spaventosi e c'è qualcosa di intrinsecamente inquietante nelle ossa: questa è la fascinazione dalla quale ho attinto, quando ho scritto quel romanzo. Perciò il valore e il potere di attrazione degli oggetti nella scrittura, così come nella filmografia e nello sviluppo di una trama, sono centrali.

Detto questo, sarei disposto a sacrificare tutto quello che possiedo pur di non perdere l'amore della mia famiglia e degli amici più cari. Tutto a parte, ancora una volta, un'opera realizzata con i pennelli, e non da me: si tratta di un autoritratto di famiglia, composto da quell'artista di grande talento che è mia sorella e che esprime l'idea dell'unità che c'è tra tutti noi. Sempre restando nell'ambito degli affetti, debbo confessare di essere legatissimo a un orologio, un modello della casa svizzera Omega, che apparteneva a mio nonno, un uomo che ha sempre esercitato un grande fascino su di me. Aveva combattuto nella prima guerra mondiale, pilotava aerei ed esercitava la professione di avvocato, come ho fatto io nel foro di New York per 20 anni. Mio nonno ha iniziato facendo lavori modesti, poi è arrivata la Grande Depressione, non ha mai perso il lavoro, ma i soldi erano pochi, quindi sono sicuro che quel cronografo sia stato acquistato più avanti nel tempo. È di colore argento, in acciaio, immagino, e ha un braccialetto in metallo. Non posso indossarlo, i peli sui polsi si impigliano nelle maglie del cinturino, ma nonostante questo e nonostante non funzioni più, lo conservo come una fonte perenne di ispirazione. Come accadeva nel romanzo di Marcel Proust, mi riporta in un tempo e un posto diversi”.

*Jeffery Deaver è un ex giornalista ed ex avvocato che, nel 1990, ha abbandonato la carriera legale per dedicarsi alla scrittura a tempo pieno. Autore di romanzi thriller, ha conosciuto il successo internazionale con Il collezionista di ossa (1997), da cui è stato tratto l'omonimo film, e ha vinto per tre volte l'Ellery Queen Readers Award for Best Short Story of the Year. Ha vinto, inoltre, il British Thumping Good Read Award ed è stato più volte finalista all'Edgar Award. Il suo primo romanzo, un horror intitolato Voodoo, è del 1988. Del 2019 sono Promesse (Solferino) e Il gioco del mai (Rizzoli).

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