Old in translation
Le versioni in altre lingue dei grandi autori invecchiano, ma gli originali no. Per questo sto ritraducendo e rincorro uno scrittore-lepre che è nascosto alle mie spalle
di Marco Rossari
3' di lettura
Mi ritrovo in questi giorni a tradurre George Orwell. A ritradurre, come a volte viene specificato, perché in verità è già stato tradotto in italiano. C'è un palinsesto, per quanto minimo: due traduzioni di riferimento di 1984 (Stefano Manferlotti prima e Nicola Gardini poi) e due traduzioni di riferimento de La fattoria degli animali (Guido Bulla prima e Michele Mari poi), sempre per Mondadori.
Mi limito a questi due titoli perché sono quelli su cui sto lavorando e perché i libri minori (anche se naturalmente sarebbe difficile definire minore, che so, Omaggio alla Catalogna) hanno avuto una sola traduzione. Il palinsesto aumenterà per un motivo molto semplice: decorsi i settant'anni dalla morte, Orwell uscirà dai diritti, e sarà libero, free, ossia gratis. E quindi dal prossimo anno potrà entrare nel catalogo di ogni altro editore. È così, dunque, che una legione di traduttori sta mettendosi all'opera sugli stessi testi, non tanto per dare una spolverata alla prosa di uno dei più grandi scrittori britannici del Novecento, quanto per riabbeverarsi alla fonte pura di un linguaggio.
Già, perché uno dei paradossi di questo mestiere – quello della traduzione, ma anche quello della scrittura, per certi versi, o della lingua in cui viviamo immersi quotidianamente – è che le traduzioni invecchiano ma gli originali no. Se prendiamo le versioni di Charles Dickens risalenti ancora a cinquant'anni fa, ci ritroviamo invischiati nella pece di una prosa goffa e ridondante. Proviamo a riaprire David Copperfield in originale ed eccoci invece sballottati come un marmocchio curioso in una prosa pimpante e freschissima. E allora com'è che una lingua invecchia e l'altra no? Che una prosa si ricopre di polvere e l'altra rimane ficcante? È un bel quesito con un che di misterioso, pertinente alla storia della lingua.
A me piace pensare che gli autori – i grandi autori – abbiano stretto un patto con il diavolo e ottenuto di restare immuni allo scorrere del tempo, in un'eterna giovinezza non meno faustiana in quanto letteraria. Ecco: lo scrittore entra nello spirito di una cultura, arriva al cuore di un idioma allo stesso tempo comune ed eterno, crea uno Zeitgeist linguistico indipendente, padre e figlio di un'epoca. Per certi versi la lingua di Dickens, che pure fotografa un momento e non può non essere originata dal mondo in cui era nato e aveva vissuto, fonda se stessa e può essere solo e soltanto la sua lingua. Il vero scrittore – e su quell'aggettivo si potrebbero spendere pagine e pagine di chiose, lo so, ma tant'è – parla con i contemporanei, sì, ma anche con i morti, o forse solo con se stesso.
E poi? Quando la fama dello scrittore, necessariamente (come un virus, ero lì lì per scrivere), varca le frontiere del suo Paese, subentra l'oscuro e scomposto esercito dei traduttori, una falange composta di intellettuali appassionati alla lingua e alla scrittura, di talento variegato, armati di volta in volta – con il passare dei decenni – di dizionari datati, fallaci sensazioni, impressioni di viaggio, telefonate inquisitorie, amici locali, interrogativi bislacchi, ricerche affannose sul web, tutto per cercare di riprodurre quel brillìo. Ci si ritrova a perdere giorni a compulsare dizionari vittoriani o a visitare antiche armerie per capire il funzionamento di un archibugio, ma non è solo la concitata indagine volta a recuperare in pochi mesi un bagaglio di riferimenti accumulato per anni.
È anche il disperato esperimento di portare a te e di rinnovare qualcosa di unico, pur restando (paradossalmente) nella tradizione; avvicinarsi a un momento creativo altissimo – come quello, per restare all'esempio iniziale, che ha portato alla lingua (e alla neolingua) del capolavoro orwelliano – e sentirsi impastoiati nel momento lessicologico attuale, e abbracciarlo, e sentire in quello scarto, in quella camicia di forza che tenti di scrollarti di dosso e che allo stesso tempo ti protegge da te stesso, tutta la magia e l'incubo della traduzione. Riprodurre una cosa vecchia che non è mai stata vecchia: dare nuovo lustro al sempiterno nuovo. Il traduttore è destinato a rincorrere per sempre uno scrittore-lepre nascosto alle sue spalle, in un passato inattingibile e vago, eppure messo nero su bianco. A raggiungerlo perun attimo e poi a sentirlo sfuggire di nuovo, in una malinconia venata di bellezza, fino alla prossima traduzione.
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