Onboarding: l’arte di inserire in impresa i nuovi arrivati
di Massimo Bergami e Gabriele Morandin*
4' di lettura
Negli Usa il 33% dei neoassunti in posizioni manageriali cerca un lavoro entro i primi 6 mesi e il 22% lascia l’impresa entro il primo anno dall’ingresso. Sono i dati che emergono da uno studio di Keith Ferrazzi, pubblicato su Harvard Business Review e che evidenziano un problema, tanto sottostimato quanto rilevante: la difficoltà di integrare positivamente le persone nell’organizzazione. Qualcuno potrebbe sorridere pensando alle difficoltà occupazionali esistenti in Italia, soprattutto con riferimento ai giovani, ma se da una parte sono ancora troppi i neolaureati in cerca di lavoro o che scelgono di andare all’estero, dall’altra le migliori imprese nazionali (di ogni dimensione) lamentano difficoltà a trovare le persone che contribuiscano allo sviluppo.
Probabilmente una ricerca sulla tenure dei neoassunti in Italia darebbe risultati meno preoccupanti, ma se si confrontasse il grado di motivazione delle persone dopo il primo anno con quello al momento dell’assunzione, i risultati non sarebbero migliori. Inoltre, quando un’impresa decide di rimpiazzare un neoassunto, i costi sono molto elevati e oscillano tra il 100% e il 300% del salario. Non si tratta dei costi legati a un eventuale indennizzo per licenziamento, ma a tutte le risorse necessarie a gestire l’uscita e il transitorio, selezionare una nuova persona, giungere a una decisione organizzativa (che necessariamente coinvolge diversi attori) e, infine, portare a bordo una nuova persona, “sperando che sia la volta buona”. Al di là di alcuni casi singolari, incluso marchi prestigiosi, dove il tempo di permanenza in azienda dei nuovi dirigenti è quotato dai bookmaker, il problema è diffuso. Anzitutto, è necessario riflettere sulla tendenza a considerare le persone come una risorsa dell’impresa, perché, a differenza dei macchinari e dei muri, le persone non sono dell’azienda. La relazione individuo-organizzazione va infatti vista in un’ottica di scambio e arricchimento reciproco, se la prospettiva vuole essere quella di un rapporto duraturo e di mutua soddisfazione.
Alcune imprese definiscono, al momento dell’assunzione, le condizioni per un’eventuale separazione, mentre altre investono risorse per creare la community degli ex, che se per quanto riguarda le grandi società di consulenza sono un potente network di generazione di business, nella maggior parte dei casi restano costosi tentativi per gestire la reputazione aziendale o per mantenere viva la relazione con qualcuno che forse potrebbe tornare.
Tipicamente quando le cose non funzionano con i neoassunti si ritiene che il problema sia nel processo di selezione. Ricerche recenti, tuttavia, hanno dimostrato come molte delle difficoltà derivino dall’onboarding, cioè dal processo di inserimento del nuovo nell’organizzazione. Anche se servono circa 8 mesi prima che il neoassunto raggiunga la piena produttività, i primi 90 giorni sono i più critici perché in questo periodo la persona vive il processo di socializzazione e inizia ad assumere un ruolo che porterà a una maggiore o minore soddisfazione lavorativa. Spesso le imprese più strutturate propongono percorsi di inserimento che prevedono una certa solennità nella firma del contratto, un piccolo rito nella consegna della postazione di lavoro, la presentazione ai colleghi più prossimi, un tour aziendale e la consegna di un welcome kit. Si tratta di buone pratiche che però sono più collegate a una dimensione formale che non a un’idea di organizzazione, intesa come processo di azioni e decisioni dei suoi componenti.
Recentemente la ricerca manageriale sta dedicando molta attenzione ai processi di onboarding, al fine di comprendere il vissuto delle persone e le dinamiche organizzativa. Daniel Cable, Chair della Faculty di Organizational Behavior alla London Business School (che martedi 2 maggio alle 13 discuterà di questi temi al dipartimento di Scienze aziendali dell’Università di Bologna), ha intuito da tempo che il futuro della relazione individuo-organizzazione si gioca in buona parte nei primi 3 mesi. Quasi come nei processi di imprinting che caratterizzano l’infanzia dei neonati, è nel primo periodo in impresa che le persone si pongono esplicitamente o implicitamente domande quali «è il posto giusto per me?» oppure «qual è il mio ruolo qui?» e sviluppano un certo grado di fit con l’impresa. In questo periodo, il neoassunto tende a controllare e ridurre la naturale incertezza mediante comportamenti che ritiene da una parte coerenti con l’immagine di sé e dall’altra legittimi nel suo nuovo contesto professionale.
In questa fase la relazione col capo diretto è molto importante e può condizionare significativamente il processo mediante il quale l’individuo sale a bordo. Qualcuno dice che «le persone entrano in azienda per il brand ed escono per il capo», ma anche se si tratta di una semplificazione estrema, la ricerca dimostra che il ruolo del capo e la qualità della relazione è molto importante per l’integrazione e per gli atteggiamenti futuri dei nuovi arrivati. Non sono molte le imprese, neppure tra le più grandi, che analizzano sistematicamente il processo di inserimento dei nuovi arrivati, mentre ormai esiste una strumentazione affidabile e semplice da usare, per studiare l’evoluzione nel tempo della relazione tra individuo e organizzazione. Un altro aspetto interessante, emerso da ricerche recenti, è che nel processo di onboarding non conta solo valorizzare l’identità aziendale, ma anche consentire che quella personale possa esprimersi. L’ingresso in impresa non è una procedura di omologazione, ma un processo di integrazione, ovvero di espressione delle potenzialità di una persona in un nuovo contesto. Il governo di questo processo passa attraverso le capacità di people management dei capi e la disponibilità dei nuovi arrivati, ma rappresenta anche un’importante competenza organizzativa.
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