Organizzazioni sociali a sostegno della politica
di Sergio Fabbrini
4' di lettura
Come proteggere l'Italia quando il suo sistema politico non funziona? Attraverso l'impegno delle sue organizzazioni sociali. Quando la politica è debole, spetta a queste ultime garantire la continuità del Paese. Ciò non significa che esse dovranno assolvere la funzione di supplenza della politica, come pure è stato necessario fare nel passato. Significa piuttosto operare sulla distinzione tra politics e policies, distinzione costitutiva delle democrazie liberali. La prima (che riguarda i rapporti di potere partigiani) spetta alle forze politiche, le seconde (che riguardano la soluzione dei problemi collettivi) debbono coinvolgere anche le organizzazioni sociali. Se la politics entra in crisi, ciò non deve condurre alla paralisi delle policies. Anzi, il consenso sulle seconde può aiutare a superare la paralisi della prima. E' un bene che Confindustria, nella sua Assise Generale dell'altro ieri, abbia espresso la sua visione delle policies che l'Italia dovrebbe adottare per uscire dalla Grande Recessione.
Ed è un bene che un sindacalista come Marco Bentivogli (leader della FIM CISL) abbia avanzato, insieme al ministro Carla Calenda, una visione di Industria 4.0 che considera il rilancio industriale del Paese come la condizione per rispondere alle esigenze degli iscritti della sua organizzazione. Si può fare politica senza entrare nella politics ma promuovendo le policies, purché esse rispondano ad interessi generali. Più le policies sono condivise, più le difficoltà della politics sono contenute. È questo il compito della leadership sociale di un Paese avanzato e occidentale. Dare continuità alle scelte strategiche di quest’ultimo, prevenendo o contenendo la politics che potrebbe contraddire quelle scelte. Quelle scelte strategiche sostanziano il nostro interesse nazionale. Un interesse strutturato (almeno) intorno al trinomio di Europa, mercato e democrazia.
Cominciamo dall’Europa. È un nostro interesse nazionale rafforzare la collocazione europea dell’Italia. Fuori dall’Eurozona e dall’Unione europea (Ue), c’è solamente un futuro di declino e marginalità per il nostro Paese. Ciò non significa che l’Eurozona e l’Ue, così come sono, funzionino adeguatamente. Anzi. Secondo l’Eurobarometro, alla fine del 2017 quasi 1/3 degli italiani si era dichiarato contrario all'euro (per come funzionava) oppure poco di 1/3 riteneva che i nostri interessi sono presi in considerazione all’interno dell’Eurozona. Tuttavia, lo stesso Eurobarometro riportava che quasi il 50 per cento di italiani dichiarava il suo favore per un’accelerazione del processo di integrazione. Una contraddizione che può essere risolta andando avanti e non già indietro (nel processo di integrazione). Se così è, allora non si possono assecondare programmi politici che affermano che “l’euro è la principale causa del nostro declino economico” (Lega) oppure che la nostra permanenza nell’Eurozona dovrà essere sottoposta ad una consultazione elettorale o referendum (Cinque Stelle). Né si possono legittimare le alleanze di forze europeiste con forze sovraniste, giustificate dall’assunto che occorre prima vincere le elezioni e poi si vedrà. Non è necessario leggere Robert Merton per sapere che in politica, come nella vita, scelte contingenti possono produrre conseguenze permanenti (e drammatiche). Basti pensare a Brexit. La secessione britannica è il risultato della promessa, fatta nel 2013 dall’allora primier David Cameron, di indire un referendum sull'Europa per tenere unito il suo partito in vista delle elezioni del 2015. I Conservatori vinsero poi le elezioni, ma la promessa dovette essere rispettata. Con le conseguenze che vediamo.
Vediamo il mercato. È un nostro interesse nazionale superare i vincoli che impediscono al nostro Paese di crescere. Senza la crescita è difficile che ci sia occupazione, anche se la crescita non produce necessariamente una buona occupazione. Negli ultimi anni l’Italia è cresciuta (1,5 per cento), ma continua ad avere il tasso più basso dell'Eurozona. Così, l’occupazione è aumentata, ma il nostro tasso di disoccupazione continua ad essere più alto rispetto alla media dell’Eurozona (10,8 per cento rispetto all’8,7 per cento, dicembre 2017). E soprattutto continuiamo ad avere un debito pubblico (132 per cento del Pil) che ci pesa come un macigno. In questa situazione, la leadership sociale non può accettare proposte elettorali che, se implementate, ci porterebbero ad un potenziale default finanziario, non dissimile da quello dell’autunno del 2011. Promettendo il reddito di cittadinanza o l’abolizione della legge Fornero si potranno conquistare voti, ma certamente non si conquista la stabilità finanziaria del Paese. Occorre fare pace con l’interdipendenza, promuovendo un’alleanza per la crescita tra noi e l’Europa. All’interno dei vincoli finanziari in cui siamo costretti (per colpa nostra) ad operare, molto può essere fatto (anche per ridurre quei vincoli). Ma ciò richiede un governo competente, capace di costruire le necessarie alleanze nazionali ed europee. Solamente i Paesi infantili si affidano alle magie degli stregoni, i Paesi maturi valutano i politici per ciò che hanno fatto, non già per ciò che promettono di fare. L’Italia ha bisogno di una rivoluzione cognitiva per modernizzarsi. Modernizzare vuole dire non solo promuovere piani infrastrutturali, ma anche modificare modelli culturali. Abbiamo bisogno di reti digitali, ma anche di università in cui si parlino tre o quattro lingue e non solamente due (anzi, una sola, secondo l’opinione di alcuni patriottici magistrati della nostra giustizia amministrativa). Certamente, l’apertura metterà in difficoltà individui e gruppi, in particolare nelle regioni più deboli (come quelle meridionali). Ma anche qui molto può essere fatto per sperimentare nuove politiche di welfare, se si condivide il principio che le società aperte saranno solide solamente se inclusive.
Infine, la democrazia. È un nostro interesse nazionale superare la crisi della politica, dandoci un sistema di governo efficiente e legittimo. L’esito delle elezioni del 4 marzo sarà conseguente con l’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Quelle elezioni accentueranno la frammentazione partitica e la differenziazione politica tra le due camere del Parlamento, esiti che il progetto di riforma costituzionale intendeva prevenire. La leadership sociale del Paese non deve perdere tempo con i fanfaroni che denunciano (oggi) lingovernabilità dell'Italia dopo aver fatto (ieri) una campagna contro chi voleva garantire la governabilità dell’Italia. Né con quei commentatori che addirittura sostengono che troveremo il modo per tirare avanti anche senza un governo, confondendo la democrazia con il teatro di Pulcinella. Alla politica che non riesce a trovare il bandolo della matassa, è bene che la leadership sociale opponga il realismo visionario di chi non si rassegna ad un’Italia provinciale, in decrescita (in)felice e trasformista. Proponendo quindi politiche di riforma (dell’Europa, dell’economia e delle istituzioni) che possano aiutare la politica a liberarsi dalle proprie debolezze.
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