Osso di seppia e arcobaleno, gioia e identità
Ritorno (con i ricordi) a una spiaggia brulla nell'isola di Sant'Antioco. Niente effetto cartolina ma una poesia di Quasimodo e un campo di calcio, tra giovinezza e amicizie
di Stefano Salis| illustrazione di Federico Tramonte
6' di lettura
Per anni sono andato in giro portando, ben chiuso in un angolino del portafogli, un piccolo foglio a quadretti con una poesia da me trascritta. Sapere che quella poesia era con me mi dava una certa sicurezza, o forse no, era solo un gesto scaramantico; comunque aveva acquisito, nel tempo, sempre più senso. Nel fiele delle crete, / nel sibilo dei rettili, / il forte buio che sale dalla terra / abitava il tuo cuore. // Tu già dolente al cielo delle rive / ti crescevi crudele il sangue / d’una razza senza legge. / Qui dove dorme verde l’aria / di questi mari in cancrena, / affiora bianco scheletro marino. / / E tu senti una povera vertebra umana / consorte a quella che il flutto / logora e il sale. // Fino a che memoria ti sollevi / a sospirati echi, / dimenticata è morte: / e la candida immagine sull’alghe / segno è dei celesti.
Non è un capolavoro, lo so, ma discreta, sì. Suona bene. È proprio una “poesia-poesia”, di quelle che si scrivevano nel Novecento in Italia. C’è l’ermetismo, quello che i critici chiamano il correlativo oggettivo, il sentimento, l’alliterazione, le figure retoriche, il rispetto del metro. Ma poi c’è anche tutta una sua maniera, un gusto letterario, uno stile, un alludere a poesie d’altri autori. C’è tutto, insomma. Più di tutto, però, per me, ci sono due cose. L’autore: Salvatore Quasimodo, uno che le poesie le sapeva scrivere, visto che gli hanno dato pure il Nobel. Poi, c’è il titolo: Spiaggia a Sant’Antioco.
Ecco. Se permettete, vi porto da me, in viaggio: a casa, dove questa estate non sono stato. Sono nato e vissuto, per i primi trenta anni, qui a Sant’Antioco, isola nel sud ovest della Sardegna. E ho sempre abitato – e tuttora quando torno – in via Quasimodo, appunto, case popolari. Era chiaro – destino? –, era persino scontato che non potevo che rimanere affascinato, dunque, da questa poesia. Così l’ho imparata a memoria, l’ho trascritta, la custodivo e, ogni tanto, me la ripetevo. Sì, ma, alla fine: cosa diavolo vuol dire, davvero, questa poesia? Che cosa dice a me? E ad altri come me? E poi: mi dovrebbe dire qualcosa?
Ho sempre associato l’idea di spiaggia a una spiaggia dove si andava da ragazzi con gli amici, si chiama Coa Quaddus, la coda di cavallo. Mare cristallino, sabbia bianca e fina, macchia mediterranea, profumo di lentischio, fiori di asfodelo, sole a picco, albe meravigliose, frinire di cicale, persino gli ameni pascoli di pecore visibili a pochi passi dagli ombrelloni. Non sto scherzando: è tutto vero. Coa Quaddus è il concentrato di tutti gli stereotipi della spiaggia sarda da cartolina. Bene. Non è quella la spiaggia di cui parla la poesia, con tutta evidenza. E, infatti, non è la spiaggia del mio cuore: peggio per voi, vi porto da un’altra parte, con i ricordi. Negli anni, infatti, ne è entrata un’altra. È la più brutta, brulla, inospitale, dell’ isola: mi verrebbe da dire che dalle crete di quelle sabbie, sì, stilla il fiele. Il mare è fermo, e caldo, lo si potrebbe definire “in cancrena”, invaso da ciuffi enormi di posidonia, di alghe, fino quasi alla riva. Fare il bagno in quell’acqua: orrore. Infatti, l’avrò fatto sì e no – e sempre per necessità, ma sudato e felice, capirete presto – due, tre volte. Dimenticavo. Tira quasi sempre vento. Forte. In autunno, la terra desolata, che altro che T.S. Eliot...
A ridosso di quella spiaggia, Cussorgia, con i miei amici, avevamo sterrato e ricavato un campo di calcio a 5. Niente di che, anche stavolta. Come per la spiaggia, immaginate un terreno arido, ghiaia. Uno di noi, che se ne intendeva, dice lui, suggerì di seminare non so quale erba. Non solo non crebbe mai un ciuffo, l’aveva presto travolta un’erbaccia fortissima, una gramigna tenace e, a dire il vero, nemmeno tutti i gambi spinosi del cardo eravamo riusciti a estirpare. Tratti sabbiosi, il terreno non era per niente parificato dal nostro lavoro: il pallone un po’ rimbalzava, un po’ frenava, inutili i tentativi di essere precisi nei passaggi. Ovviamente non c’erano le linee del campo e, nei primi tempi, nemmeno le porte, si andava a occhio. Però: era il nostro campo. Ogni sabato, per non so quanti anni, sole, pioggia, vento – anzi, meglio con pioggia, vento e fango, tutta epica casalinga –, eravamo lì a giocare, sempre gli stessi, nessuna defezione, per nessun motivo. Il giorno della prima partita nel campo nuovo sbucò fuori un arcobaleno così terso che sembrava una presa in giro. O, forse, un segno. In paese, manco a dirlo, eravamo gli unici a difendere quel terreno e apprezzare la spiaggia.
Poi, come tutte le cose, è finita. Siamo diventati grandi, ognuno ha fatto le sue scelte – o magari la vita le ha fatte per noi –, comunque quel periodo si è chiuso, e con lui la giovinezza, che si fugge tuttavia. Forse tutta la costanza, la determinazione, la gioia, sì, che abbiamo messo nell’andare tutti i sabati in un campo brullo vicino a una spiaggia inservibile in quegli anni, non è stato altro che un preparare, lentamente, ma (in)consapevolmente, la fine del nostro periodo più spensierato, più libero. Io, poi, ho fatto la scelta più crudele e meschina. Andarmene.
Un giorno, anni dopo la mia partenza – il campo ormai abbandonato ma intatto dentro di noi, o almeno alcuni di noi –, camminavo sulla spiaggia di Cussorgia. Ho trovato un osso di seppia. Non so come mai – ne avrò trovati decine – ma, quella volta, mi è tornata in mente la poesia. Me la sono recitata e certo!, ecco cosa ha visto Quasimodo sulla spiaggia. Un osso di seppia. Magari c’era un’evocazione coperta di Montale, un debito poetico da saldare, chissà. Eppure è chiaro, era un banale osso di seppia, lo stesso che io avevo in mano in quel momento (affiora bianco scheletro marino). Allora, quel giorno, davanti a quel reperto mi era finalmente chiaro anche il resto della poesia: ero in grado di capire. E lei mi parlò, con una chiarezza sconosciuta. Non più da poesia, e non più a un lettore, ma da amico, da confidente, da confessore. E tu, mi diceva, senti una povera vertebra umana / consorte a quella che il flutto / logora e il sale. Noi sardi “marini”, di quelle spiagge, delle più nascoste, delle meno cartolinesche, delle più amare, di quelle terre, eravamo e siamo consorti di quel piccolo resto animale, logorati, tutti, dal sale e dal flutto. Eravamo così da millenni, figli del mare e del sale, della sabbia, del fiele delle crete, cresciuti in una terra d’ossidiana, la pietra nera il cui buio sale dal cuore della terra.
E la poesia, ora, mi diceva anche il resto. Vedi, mi diceva, tutto questo ha un senso; e un perché. Questo osso di seppia che hai trovato, proprio qui, proprio ora, ti viene a ricordare chi sei. Fino a che memoria ti sollevi / a sospirati echi, / dimenticata è morte: / e la candida immagine sull’alghe / segno è dei celesti. Ricordarsi chi si è, da dove si viene, è una delle arti più difficili, più complesse. Ma anche più subdole. Perché non c’è nessun merito nell’essere nati in un posto anzi che in un altro. E solo chi non ha costruito nessuna identità propria di essere umano, di persona, nessuna coscienza di sé, si appiglia all’appartenenza geografica come a un dato qualificativo. No, la mia sardità è oggettiva e non significa nulla, né meglio né peggio degli altri. Non è un vanto, non è un demerito. Ma, sarà pure bieca psicogeografia, è qualcosa: di inoppugnabile, di decisivo, di, come dire?, definitivo.
Ogni giorno apro il pc e devo digitare una password. Lo facciamo tutti, costretti a questi piccoli, inutili, segreti quotidiani. La mia, lo avete già capito, è cussorgia. Ho sentito di altri che utilizzano come password, come “identificazione”, un luogo della loro memoria, dove sono stati felici. Lo farete anche voi. Non un nome di persona, che so i figli, gli amanti, i gatti, no, proprio il nome di una località, anzi, di quella località. L’identità come password, la mia Sardegna come mezzo per aprire un mondo, per connettersi, viaggiare, scrivere, mi sembra una meravigliosa, banalissima, sublime metafora. La spiaggia è simbolo di limite, di confine, di frontiera. La spiaggia conosce l’immensità del mare e lo teme, e lo rispetta, eppure la spiaggia c’è, ci siamo, la spiaggia è terra che ha vinto il mare e noi facciamo parte di questa terra e possiamo prendere il largo, a partire da questa sabbia. Anzi: non c’è miglior viatico: e, magari, spunta pure l’arcobaleno a indicarci la vi(t)a, come dice la canzone. Già: Somewhere Over The Rainbow.
PS. Lo so, lo so, che ora dovrò cambiare la password. Ma tanto, cosa credete, mica andavamo solo lì. Ho altri toponimi, pronti all’occorrenza.
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