Otranto, tutta la storia in un pavimento
di Carlo Ossola
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Da Patrasso in traghetto a Brindisi e poi in auto. Scendo in Salento. Al centro del nostro viaggio, Otranto è anche la sua prima sintesi e ricapitolazione: una sorta di «mise en abîme» delle ragioni che rendono unita quest'Europa di cui siamo eredi e responsabili. Il pavimento musivo della cattedrale di Santa Maria Annunziata è il compendio dell'immaginario europeo.
Il monaco Pantaleone, su commessa del Vescovo di Otranto, fra il 1163 e il 1165, distende su tutto il percorso della cattedrale, lungo l’asse di un “Albero della Vita” (che è il tronco delle generazioni), la vicenda dell’umanità: un’immensa «archeologia della fama e del credere» che inizia da Adamo ed Eva, Caino e Abele, il Diluvio universale, la superba torre di Babele, i flutti che inghiottono Giona, ma rappresenta poi il ciclo dei mesi, l’unità della terra significata dagli animali più remoti (leoni ed elefanti), più simbolici e fantastici: draghi, grifoni, sirene e l’unicorno: tutto l’immaginario delle leggende. Anche la tradizione letteraria ha il suo degno spazio con il re Artù e con il mito di Alessandro Magno rapito ai cieli. Non solo a Siena o a Parigi o a Laon, in tutto il Medioevo davvero la cattedrale è «spazio dei tempi» (Friedrich Ohly); il credente viene per ritrovarsi e per varcare il labirinto del tempo. Il bisogno di riportare l’umanità intera nel “luogo dei chiamati” (ecclesia) non è di qui soltanto: chi pensi ai mosaici del duomo di Monreale o alle vetrate della cattedrale di Chartres avrà sontuose conferme. Ma Otranto ha questo fascino ulteriore: ogni epoca ha rivissuto in questo approdo – a mezza via tra Occidente e Oriente – i propri miti di rinnovamento.
Come non pensare a Horace Walpole (Londra 1717-1797) e al suo Castello di Otranto, 1764-65, testo fondatore del cosiddetto “romanzo gotico” che insidierà il primato dei Lumi, con le proprie tenebrose storie, con i presentimenti di sovrannaturale e irrazionale, con i propri complotti e fantasmi «per deviare su una falsa pista e distrarre con un intrigo immaginario»? Ha scritto Paul Éluard che Il castello di Otranto è uno scrigno di emblemi: «Perfette immagini dei sogni: l’elmo, coscienza ancorata del soprannaturale; la spada, vela arrivata al porto; il ragazzo rabbiosamente sacrificato all’amore; Manfredi, ormai stanco dei prodigi, che parla tanto per parlare, giacché sospetta di aver perso tutto; Teodoro e la sua indicibile speranza di una malinconia infinita».
Otranto non è solo ricapitolazione della coscienza medievale e delle sue riviviscenze romantiche; è anche testimone della crisi dell’Occidente cristiano: la battaglia di Otranto (agosto 1480) fu un terribile monito del pericolo turco: 800 cittadini decapitati perché renitenti alla conversione all’Islam (i «beati martiri idruntini»), altri mutilati o fatti schiavi. La reazione cristiana, guidata da Sisto IV, fu immediata; la città nuovamente assediata – stavolta da parte dei fedeli- e la morte, intanto, di Maometto II fecero sì che Ahmet Pascià dovesse cedere e riconsegnare, il 10 settembre 1481, la città – un cumulo di macerie – al duca Alfonso di Calabria. Ad essa ha dedicato un romanzo corale Maria Corti nell’Ora di tutti, 1962, un narrare nel quale – come osservò Oreste Macrì – «lo strato popolare congiunge i popoli nemici ai vertici nel segno della “nenia triste” del saraceno». La pena e il coraggio pareggiano, manzonianamente, vincitori e vinti: «Che uomini questi popolani. Come farà la storia a non perderne di vista nessuno? […] Colangelo, brav’uomo che mangiava sarde sott’olio e covava nella sua oscura esistenza un imprevedibile eroismo: morì dopo aver fatto strage di un mucchio di turchi, senza una parola. Così possono comportarsi uomini umili, caduti nella rete di un grande destino» (L’ora di tutti).
Ma la storia non ha una sola direzione: il terribile Ulu Alì, o Uccialì, o Occhiali, alias Giovanni Dionigi Galeni (Le Castella, Calabria, 1519 – Istanbul 1587), catturato dai corsari, si convertì all’islam, divenne pascià di Tripoli, governatore di Algeri, e temuto signore del Mediterraneo (scorrerie sino a Taggia e Roccabruna, e la Corsica); protagonista infine della battaglia di Lepanto ove tenne testa a don Giovanni d’Austria (come ricorda anche Cervantes nel Don Chisciotte); eppure nel crotonese e nel Salento lo si ricorda con un monumento e lapidi. La si è chiamata, nei tempi moderni, «sindrome di Stoccolma» (la vittima si sottomette all’aggressore, ammirata), ma forse bisognerebbe più propriamente chiamarla la «sindrome di Uccialì», quel fascino che emana da corsari, briganti, uomini di ventura, fuori da ogni legge, castigatori e giustizieri, che hanno popolato la nostra infanzia, i fumetti, i film di un eroismo solitario e senza terra. Leggendo di Khayr al-Din detto il Barbarossa, di Dragut e di Occhiali e delle loro imprese nel Salento, tutto si confonde: le razzie, il prezzo dei cristiani fatti schiavi, e persino orazioni e indulgenze per liberarli (di cui scrisse con acuto garbo Angelo Mercati, Episodi piratici del secolo XVI. Da «Indulgentiae pro captivis», 1931; episodi di scorrerie nel Gargano, pellegrinaggi incompiuti, prezzi di riscatto, etc.). Ecco per esempio apparire Paolo Biagio de Marinis, eremita «in loco de Mola» (presso Bari) e lì con altri sei, tutti «capti et in miseram servitutem redapti a quibusdam mauris […] per mare depredantibus» (taglia 700 scudi). No, il Mediterraneo, non è mai stato un lago di pace.
Proprio per questo l’«andare di corsa», in questi tempi corsari e predatori, stride quanto la fretta «che l’onestade ad ogn’atto dismaga» (Purg., III); più saggio l’adagio latino «Festina lente»che Svetonio attribuisce ad Augusto: “affrettati lentamente”, incalza misurando i passi. Anche di questo dobbiamo essere grati al Walpole di Otranto: egli scrivendo il 28 gennaio 1754 all’amico Horace Mann, ricorda come abbia tratto dal racconto di avventure Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo, per opra di Cristoforo Armeno (Venezia 1557, ma tradotto poi nelle lingue d’Europa) il principio di ciò che si trova grazie alla serendipity, «per ventura e per sagacia [by accidents and sagacity]», come accade ai tre protagonisti in viaggio. Intuizione e deduzione sono luce del guardare e del pensare: in fondo ogni viaggio dovrebbe in noi richiedere e produrre serendipity; quell’osservare dalla parte ove il «cammello» cieco di un occhio non poteva lasciar traccia: perché noi – se guardiamo solamente dalla parte ove il cammello bruca – ciechi d’un occhio ci facciamo… E così, leggendo il secondo episodio delle avventure dei «figliuoli del re di Serendippo», quello «della vigna e del cimitero» e della speciale qualità del vino che da essa si trae, ripenso a quell’inobliabile serendipity che mi rapì deviando a caso dall’autostrada di Borgogna, intasata d’auto, verso una piccola strada di vigneti e villaggi, e a quel “clos” poco sopra i declivi di Nuits-Saint-Georges, ove grappoli carichi e croci campestri s’intrecciavano a vicenda sostenendosi. Non è forse tutta qui, di sacrificio e di plenitudine, nella vigna del testo e del creato, l’eterna vita/e della vecchia Europa?
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