Per il dissesto di Taranto il Comune può chiedere 500 milioni
Riaperta la possibilità di ottenere un risarcimento per il dissesto finanziario del 2006
di Domenico Palmiotti
2' di lettura
La Corte di cassazione, terza sezione civile, riapre per il Comune di Taranto la possibilità di ottenere un risarcimento per il dissesto finanziario del 2006, quando l'insolvenza mandò a gambe all'aria l'ente e al commissariamento per le dimissioni anticipate del sindaco di allora, si unì l'arrivo dell'organo straordinario di liquidazione.
«Il risarcimento - spiega al Sole24 Ore Stefano Caffio che ha assistito l'ente locale - il Comune lo ha sempre cercato sin dall'inizio della vicenda in sede penale, solo che poi l'aspetto penale è venuto meno per prescrizione del reato e sono rimaste le statuizioni civili. Ora la Cassazione (sentenza n. 6726/2023) rimanda il tutto alla Corte d'appello con un nuovo giudizio civile affermando che le condotte di chi amministra non sono esenti da responsabilità».
Coinvolti ex amministratori, ex dirigenti e funzionari comunali ed ex revisori dei conti. Il sindaco Rinaldo Melucci dichiara che «la sentenza consentirà all'ente di chiedere un risarcimento per il danno stimabile in 500 milioni di euro per i fatti che portarono alla dichiarazione di dissesto, cioè il sistematico occultamento di rilevanti poste di debito dal rendiconto comunale, tali da renderlo non rappresentativo dell'effettiva situazione finanziaria. Si tratta di una pronuncia innovativa, nonché di un solido precedente, che vede affermarsi anche nell'ambito dell’amministrazione pubblica il principio per cui, indipendentemente dagli esiti penali della vicenda, resta saldo il diritto al risarcimento da illecito civile per le condotte che abbiano causato danni all'ente», aggiunge Melucci. Presidente Giacomo Travaglino, giudice relatore Chiara Graziosi, la Suprema corte ha cassato la sentenza del 2020 della Corte d'appello di Lecce, che aveva rigettato la richiesta risarcitoria del Comune sostenendo che vi era carenza di prova di reato sotto il profilo oggettivo e soggettivo.
Riprendendo la sentenza dei giudici di Appello laddove dicono che i debiti fuori bilancio «legittimamente non sono stati inseriti nei bilanci di previsione e dei consuntivi, che il falso riguardo a tali debiti non sussiste nel suo elemento oggettivo» e che il mancato riconoscimento, da parte della giunta, «avrebbe potuto integrare il reato di omissione di atti d'ufficio o di abuso d’ufficio come ipotizzato peraltro dallo stesso giudice penale di primo grado», la Cassazione scrive che «è evidente che l'oggetto del vaglio è fuoriuscito dai confini assegnati al giudice, il quale è tenuto esclusivamente ad accertare l'illecito civile con gli strumenti del rito civile e non a riprendere il percorso di accertamento penale con l'unica differenza dell'applicazione di un rito diverso».
Per la Cassazione, la Corte d'appello pur sottolineando in sentenza «l'autonomia strutturale e funzionale del giudizio civile di rinvio, con l'applicazione delle regole processuali e probatorie proprie del processo civile poi si scioglie da tale regola, compiendo l’accertamento in ordine al fatto reato (riferendosi ancora persino a una posizione di “imputati”) e non dedicandosi, invece, all’effettivo oggetto, ovvero all'illecito civile».
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