Paolo Fresu: «Ho seminato musica e nuove idee»
di Stefano Salis
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Time in Jazz è un sogno fatto in Sardegna; uno splendido colpo di testa, curato con testardaggine nuragica, leggerezza mediterranea e quel bel po' di follia e visionarietà che ti porta a credere, come dice lo slogan adottato da 30 anni, che «l'impossibile è possibile». Enon si tratta più solo di un sogno ma di una realtà consolidata e tangibile, se siamo giunti all’edizione numero 30 di un festival culturale – che ha certo il jazz come base essenziale, ma che ha allargato via via i suoi interessi a cinema, arte, spettacolo – diventato simbolo stesso di riscatto e possibilità di un territorio aspro e svantaggiato (almeno rispetto al glamour delle spiagge vicine), come quello di Berchidda e paesi limitrofi.
Paolo Fresu, 56 anni, il jazzista italiano più noto a livello internazionale, centinaia di dischi, migliaia di collaborazioni e concerti, una cifra sonora tutto sua, magro e tirato a lucido, compie ancora una volta un gesto potentemente simbolico e metaforico. “Porta” la musica e la gioia con sé, nella sua, ancestrale e futuribile, Sardegna: uno sbarco in piena regola, festoso e colorato, ben diverso da quegli arrivi per mare cui i sardi sono stati abituati, loro malgrado, da secoli.
Siamo sul ponte della Mega Express 3, una delle inconfondibili navi gialle della Sardinia Corsica Ferries, che da Livorno solca veloce (ed è a pieno carico, oltre mille passeggeri) un mare piatto, un’autostrada blu intenso verso Golfo Aranci: è la scintilla di partenza dell’edizione 2017 (che chiude il 16). Del resto, questi “concerti in movimento”, come quello offerto oggi a chi compie la traversata, sono segno distintivo del festival: si sono fatti, nel tempo, su aerei, treni, stazioni, carri. Fresu è rilassato, veste il suo total look “fresiano” (fantasie su fantasie, abbinate in modo suggestivo e mai banale), i capelli sono ormai grigi e ordinati, non più quelli lunghi e fluenti degli inizi. Il sorriso mite, invece, è sempre lo stesso.
«Era il 1988», ricorda. «Il sindaco di Berchidda, il paese nel quale sono nato e grazie al quale, a partire dalla banda musicale, ho imparato ad amare la musica, mi chiese, dopo un concerto del mio quintetto storico, di pensare a qualcosa per il paese». Fresu butta giù un programma – sostanzialmente rispettato in tutte queste edizioni – che sa di profetico; bastano una vecchia Lettera 22, un foglio di carta semplice e molta immaginazione. «Il nostro intento», scriveva, «è offrire delle proposte musicali che normalmente non si trovano nei circuiti di programmazione, in modo da giustificare la scelta di Berchidda in principio come luogo dove ’succede’ qualcosa». Chiede un contributo minimo, una manciata di milioni di lire; non si arriva a dieci.
La partenza è così così: qualche centinaio di coraggiosi, inguaribili jazzofili e molti più mugugni in paese. Non poteva essere altrimenti. «Gli artisti hanno capito da subito lo spirito diverso del nostro festival, la gente si è abituata pian piano». Il jazz, parliamoci chiaro, non piace a molti: sempre meglio un ballo tradizionale, dice poi il tradizionalista, e figuriamoci vedersi catapultato in piazza uno che magari ti suona il piano mettendo tra le corde oggetti strani e tirandone fuori incomprensibili suoni striduli.
Ma Fresu ha pazienza. E visione. «Negli anni la piazza, cuore pulsante del paese, e quindi del festival, l’abbiamo conquistata. Anche a prezzo di qualche battaglia non troppo simpatica». Dalla sua, inizia ad avere i numeri, e non solo quelli. «Quasi dieci anni dopo l’inizio, intanto avevamo già costituito l’associazione per gestire il festival, lessi un articolo. Un pastore del mio paese, intervistato dal giornalista di passaggio, diceva di far sentire jazz alle sue mucche: davano più latte, e migliore. Ho capito che ce l’avevamo fatta».
Time in Jazz è soprattutto l’atmosfera, non i nomi che ci vanno, per quanto importanti. È i musicisti blasonati che si ritrovano a suonare nel nulla, un pianoforte tra riarsi solchi di vigna, un’alba passata a interrogarsi se gli spettatori verranno e trovarsi poi 1.200 persone sull’erba pronte a commuoversi. «Berchidda è il suono improvviso, e del tutto coerente con il nostro progetto e la nostra filosofia, dei campanacci di un gregge che attraversa la strada a pochi metri da chi sta suonando; è le cicale che ti frastornano e allo stesso tempo ti accompagnano mentre un Antonello Salis suona sanguinante il piano sotto la canicola in una sperduta chiesetta romanica di campagna». Non si capisce del tutto Berchidda (e dintorni: oggi sono una quindicina i paesi che partecipano al progetto) se non si è disposti a condividere la mensa tutti insieme (stelle del jazz, volontari, sponsor, amministratori), se non si conviene che «Vermentino libero, vermentino fresco» può essere grido di battaglia dal quale passa un riscatto che è anche economico.
«Oggi il festival – spiega Fresu – costa circa 500mila euro, comprendendo tutte le attività che facciamo durante l’anno. Il Festival infatti non si esaurisce a Ferragosto. Ma l’indotto calcolato è oltre 1,5 milioni di euro. Se si pensa che siamo partiti da 8 milioni di lire e 200 spettatori, contro i 30-35 mila di oggi, di strada ne abbiamo fatta». Ancora, però, non è questione di numeri. Fresu è chiaro. «Sì, potrei dire che i finanziamenti oggi sono per metà privati e per metà pubblici, e tra i pubblici ci metto i 4-5.000 euro che ogni comune stanzia per la sua collaborazione. O si possono elencare i 700 pasti al giorno allo staff e così via. Ma anche se siamo in un’epoca in cui a ciascuna cosa viene dato un valore economico, io penso che ci sia un valore, meno visibile, forse effimero, che conta molto di più». È l’immagine di un territorio che si racconta – almeno per un periodo all’anno – in un altro modo, è l’entusiasmo di centinaia di giovani che vengono a lavorare volontariamente ma ripartono con una rete di conoscenze e competenze che in seguito diventano una professionalità spendibile (è successo già molte volte), è il camionista locale che, grazie al festival e per il festival, fa i corsi invernali di inglese per parlare d’estate con Ornette Coleman. Berchidda è «vivere l’esperienza di un festival diverso negli intenti e nei risultati. Ad andare a un concerto, bello o brutto, tenuto da un musicista su un palco, siamo capaci tutti. Ma la sensazione di unicità che trasmette Berchidda è altro». E, infatti, Fresu, che di concerti in questa “gioia dei 30 anni” a Berchidda ne ha fatti centinaia («non ho mai preso, per mia scelta, di cui vado orgoglioso, un euro, né in qualità di musicista, né in qualità di direttore artistico»), se li ripercorre mentalmente, compie scelte precise. «Mi sarebbe piaciuto – dice con un pizzico di rammarico – avere Miles Davis, il mio idolo, ma non è stato possibile. Spero di avere, prima o poi, Wayne Shorter e Caetano Veloso. Ne parliamo da anni, speriamo che accada». Alla domanda di selezionare i concerti memorabili non si sottrae e va sempre in una direzione: lontano dal palco. «Joshua Redman a Telti, performance commovente, che anche mio padre ricordava con sbalordimento, Bill Frisell nel campo sotto il sole, Ezio Bosso... e poi le contaminazioni più strane, come quando Gavino Ledda lesse le sue poesie in una lingua completamente inventata da lui». Non è facile vedere la gente piangere di gioia e gratitudine sotto i graniti del Limbara, ma al festival questo miracolo è riuscito più di una volta. «La nostra associazione oggi va oltre la musica. Per esempio, abbiamo recuperato un ex caseificio. Berchidda era una zona importante per il formaggio: negli anni 60 impiegava centinaia di persone e 350 soci». Un tentativo di resuscitare uno scheletro post-industriale, grazie anche a un finanziamento europeo, destinato a diventare «centro permanente per le arti, polifunzionale, sede-laboratorio, per esempio, per compagnie di danza o teatro, che vengano qui, pagando, e preparino i loro spettacoli. Da noi la vita costa poco, conviene, e l’indotto ci guadagna». Sembra fantascienza, ma Fresu ha abituato alle sorprese. Vedremo.
E, a proposito di sorprese, ne riserva una, prima di cambiarsi, mettersi una maglietta nera dello staff del festival e suonare con il pianista Enrico Zanisi. «Avevo 26 anni quando ho iniziato il festival. Sento che è arrivato il momento, per me, di lasciare. E prima o poi lo farò. Diciamo che posso arrivare a 60 anni, ma mi sembra giusto fare un passo indietro. Come ho fatto per i seminari di jazz a Nuoro, che, dopo 25 anni di direzione, ho lasciato in buone mani». Detta così, la notizia, può essere un piccolo boom per chi ama il festival, ma Fresu la accompagna con il suo solito sorriso dolce e sornione, gli occhi due fessure che scrutano l’interlocutore di sottecchi. «Il festival non è mio, mi piace pensare che sia un oggetto che appartiene a tutti, un monumento collettivo. Vorrei che i più giovani, che chi ha nuove idee, prendesse in mano l’organizzazione. Certo, io ci sarò sempre, questa è una creatura quasi filiale per me, ma mi pare che il momento sia giunto». La trentesima edizione del festival si presenta con un bel catalogo, storia e foto di tre decadi, realizzato in fretta e furia, ma con grande qualità, da Franco Cosimo Panini editore. Nella prima pagina, Fresu scrive il prologo di quello che sarebbe diventato il nuovo progetto identitario del suo paese: «Time in jazz fu una nuova semina e un nuovo raccolto». Ora la sua mano scorre il libro e si precipita verso l’ultima pagina: «Vedi? Qui il futuro l’ho già scritto: “un festival che raccoglie la semina di trent’anni fa e che ara in nuovi campi attendendo altri semi”». L’idea è quella di una Fondazione, magari, ed è quella di una collaborazione più stretta con un ente importante per l’isola come la Fondazione Banco di Sardegna. «Hanno una collezione d’arte bellissima, ma si può collezionare anche qualcosa di immateriale, come un festival». Il pubblico freme, Fresu si avvicina al palco: sullo stesso livello degli spettatori. Il repertorio? L’ennesima sorpresa: un pacco di fogli lasciati sotto lo sgabello dal pianista da pianobar della sera prima e scovati per caso: il duo Zanisi-Fresu, mai suonato insieme prima, decide all’istante: seguirà quella falsariga, mischiando standard jazz e successi come «Yesterday» e «My Way», titoli che sono quasi un compendio di questa chiacchierata.
Eppure c’è spazio per un ultimo anedotto, tra i mille raccontati e che sarebbero da riportare. «Proprio all’ingresso di Berchidda, lo scultore Pinuccio Sciola, amico del Festival e spesso presente con le sue pietre sonore, ha gettato, dentro un solco arato dal carro a buoi, i suoi semi di pietra. Chissà, tra qualche millennio quando li ritroveranno cosa penseranno...» ride Fresu.
E mentre prende al flicorno il primo tema, le inconfondibili, struggenti, note di «My funny Valentine», ennesimo omaggio davisiano, mi viene da pensare che qualcuno di abbastanza visionario ha saputo far germogliare persino le pietre in questa parte di Sardegna che ha avuto, per fato, di avere in dono un uomo così esile ma forzuto abbastanza per soffiare dentro una tromba la voce del vento, del sogno, delle idee impossibili che si trasformano in realtà.
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