Paolo Fresu: «La musica è il mio modo di dare un contributo al mondo con un’idea di bellezza e di poesia»
Miles Davis e il canto popolare Adios, Nugoro amada, Lucio Dalla e Richard Strauss. E poi vecchi jukebox, mangiadischi e bande di paese. L'educazione artistica del trombettista sardo raccontata come in un romanzo di formazione
di Stefano Salis
6' di lettura
Un musicista ha, deve avere, fondamentalmente, un'ossessione. Il suono. Non la musica, non una particolare musica (quella che ama, quella che detesta, quella che, eventualmente, suona), ma proprio il “suono”. L'emozione primaria, cioè, che il brivido dell'ascolto e della produzione di sonorità porta dall'orecchio al cuore, e viceversa; un inestricabile groviglio di sensazioni che si stabilisce tra i fruitori: e che chi suona porge agli ascoltatori.
Paolo Fresu è un jazzista di caratura mondiale e ha ormai una carriera alle spalle che lo può mettere al riparo da qualunque parvenza di vanità: ecco perché, in questa intervista, emozionante e del tutto scarnificata, non solo ha scelto di dire la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità, ma non si è vergognato di essere se stesso fino all'osso, mescolando, saggiamente, le canzoni popolari sarde con l'ultra pop di Mario Tessuto, la “banalità” di Kind of Blue di Miles Davis all'emozione dell'ascolto, vera architrave sulla quale si costruisce una carriera di musicista: i suoni gracchianti dei dischi consunti, l'ingombro e l'orgoglio della marsina per la prima marcia con la banda del paese, il viaggio verso la musica, la fonte della musica, la portabilità della musica: una traballante Cinquecento per l'acquisto del giradischi.
C'è, in queste parole di Fresu (che è uomo di jazz a tutto tondo, non solo musicista, ma leader, esecutore, collaboratore in dischi altrui, organizzatore di eventi e festival, rappresentante istituzionale della sua categoria), l'orgoglio e la forza della “missione” della musica, che è personale e allo stesso tempo collettiva. Una dimensione che, nell'isola dalla quale proviene, e che non si è mai sognato di abbandonare, in tutte le sue valenze, geografiche, storiche e soprattutto culturali, è quanto mai visibile. La musica (e nel caso della Sardegna anche il ballo) e il racconto orale (o la gara poetica) sono elementi di aggregazione, narrazione, costruzione del sé come popolo. Paolo Fresu è stato capace di sintetizzare queste cose in una musica che affonda le radici nell'Africa nera, arriva dagli Stati Uniti, ma, nel suo caso, non smette mai di essere profondamente sarda, e perciò totalmente universale. La musica ha questo: ti connette al mondo da qualunque punto tu arrivi, e viceversa. Ogni volta che sento il suono, inconfondibile, personale, tipico, di Paolo Fresu, non posso fare a meno di sentirmi “a casa”. E questo capita a molti, come è evidente: ecco una buona notizia in tempi “scollati”, ecco un elemento di speranza, forza, qualità. Bellezza.
1.
La prima musica che ricordo della mia infanzia
LE GARE DI CANTO SARDO E LE GARE DI POESIA IN LIMBA
La nostra era una famiglia umile, mio padre faceva il pastore. Non avevamo niente a casa per ascoltare la musica: la festa patronale di San Sebastiano, che si svolgeva ai primi di settembre, era una occasione ghiotta per sentire qualcosa. Le note si confondevano con il rumore degli spari dei fucili giocattolo, delle voci dei torronai di Tonara e delle risate provenienti dai bar. Ho davanti agli occhi l'immagine dei paesani che si incamminavano in piazza con la sedietta impagliata di casa. Era un altro sentire…
2.
La canzone che ha segnato la mia adolescenza
ADIOS, NUGORO AMADA
Un canto popolare eseguito dal Coro polifonico Ortobene di Nuoro e che finalmente potevo ascoltare con un riproduttore a cassetta che aveva comprato mio fratello, più grande di me e che studiava a Sassari. Poi Lisa dagli occhi blu di Mario Tessuto, che ho potuto ascoltare quando acquistammo un mangiadischi verde pisello. Ricordo che andammo a Sassari a comprarlo, con tutta la famiglia. Fu un momento importante. Ci andammo con la Cinquecento familiare bianca di mio padre, zeppa di balle di fieno e di bidoni del latte. I 45 giri li compravo al Bar di Piriccu a poco prezzo quando, dopo essere stati ascoltati migliaia di volte nel jukebox del locale, erano praticamente inascoltabili e i suoni si percepivano in lontananza dietro il fruscio.
3.
Il mio primo amore
LUCIO DALLA
Balla balla ballerino di Dalla la suonavo con il mio complesso di musica leggera ai matrimoni e nelle feste di piazza. E poi Awakening, dei Nucleus di Ian Carr. Anche questo brano lo suonavo con il complesso I Carnaval, nel quale collaborava un pianista appassionato di jazz, figlio di un dentista che aveva a casa una bella collezione di vinili. Quando suonavamo i Nucleus nelle feste di piazza, la gente smetteva di ballare e dopo un minuto arrivava il presidente del comitato per dirci che, se non riprendevamo a suonare le mazurche e i bolero, non ci avrebbero pagato. È lì che ho preso la decisione di lasciare quella musica e di dedicarmi al jazz.
4.
Il primo brano che ho imparato a suonare
LA CORSICANA
Una canzone sarda, con la chitarra che mi aveva imprestato un vecchio suonatore di balera. Lui provava con il suo complesso vicino a casa, e io passavo le ore ad ascoltarli. Il primo brano che ho eseguito con la tromba a undici anni è stato, invece, la marcetta Topolino, con la banda; ma già prima apprendevo velocemente i brani che sentivo alla televisione… Ero però costretto a suonarli in campagna, perché il maestro Tiu Bustianu Piga voleva che non suonassi nient'altro che le partiture della nostra banda.
5.
L'emozione del mio primo concerto
I MIEI GENITORI
Il primo concerto con la banda nel 1972. Anzi, la prima processione di cui ricordo tutto e la divisa con i lustrini che ho ancora. Ancora più emozionati di me erano i miei genitori, fierissimi di quel momento. E poi la prima volta che suonai con il gruppo a un matrimonio. Eseguivamo Pérez Prado e Casadei… I ballabili per la festa. Davanti a me c'erano i paesani che si intendevano di musica: avevo i loro occhi puntati e mi tremavano le gambe. Dovevo dimostrare di essere all'altezza del mio ruolo e di suonare quasi come i trombettisti più adulti del paese.
6.
La canzone che meglio mi rappresenta
LE MIE COMPOSIZIONI FELLINI E METAMORFOSI
Qualsiasi canzone ci rappresenta nel momento in cui siamo noi a respirarla e a renderla nuova. E poi la canzone cambia con il tempo. Posso dire di suonare da decenni alcuni brani senza stancarmi. Fellini e Metamorfosi sono due mie composizioni che sono diventate quasi degli standard, ma suono da tanto anche Almeno tu nell'universo o Sì dolce è 'l tormento di Claudio Monteverdi. Di certo questi brani mi rappresentano, ma il vero perché non lo so…
7.
L'artista che ha ispirato la mia carriera
MILES DAVIS
Di certo lui, ma anche Chet Baker. Ovviamente sarebbero molti di più, perché molteplici sono gli ascolti, ma questi due sono gli artisti che ho più sentito e studiato soprattutto agli inizi. Di Miles mi ha sempre affascinato il suono e lo spazio, di Chet la poesia.
8.
La playlist preferita in viaggio
QUELLA DI MIO FIGLIO
Io non ne ho una… L'unica lista “preferita” di un viaggio in macchina è quella di mio figlio Andrea, che ascolta i Beatles e i Coldplay. Le mie (quando lui mi permette di ascoltarle) sono fatte di scoperte e di quei brani che mai avrei ascoltato altrimenti. Da poco ho selezionato una playlist solo di Lucio Dalla; un'altra di cantautori italiani. Raramente ascolto il jazz in viaggio. Questa è la musica dell'intimità familiare, come lo è la musica classica, il pop di qualità o la musica del mondo.
9.
Il mio disco preferito di sempre
KIND OF BLUE DI MILES DAVIS
So che non dico niente di nuovo, ma alla fine è il disco che continuo ad ascoltare senza mai stancarmi. Non è un caso che sia uno dei più venduti nella storia del jazz.
10.
La musica è un modo per...
SENTIRMI VIVO
Sì, è un modo per sentirmi vivo e utile. È un modo per guadagnarmi la vita (poco e niente al tempo del Coronavirus), per divertirmi e per dare un contributo al mondo con un'idea di bellezza e di poesia. È anche uno strumento sociale e politico prezioso per contribuire al cambiamento del mondo.
11.
La colonna sonora della mia vita
IL SUONO
L'anima del suono che muove tutto, e che dà vita alla vita. Un suono che traduce una melodia in passione ed emozione. Un suono che cammina e che si evolve nel tempo. Se il tempo è vita, la colonna sonora non può che essere il suono, e questo cambia con gli anni perché noi cambiamo ogni giorno. Ecco la colonna sonora della mia vita. Non tanto una musica, ma quell'essenza che la forma.
12.
La musica che più di ogni altra mi emoziona profondamente
METAMORPHOSEN DI RICHARD STRAUSS
Un esercizio di stile per 23 archi scritto in età giovanile e una non-melodia che si evolve perennemente, che mai è uguale. L'ho divorata, con gli ascolti, al punto da avere ispirato il concept di un mio disco del 1999 dal titolo Metamorfosi.
13.
Il contagio, la paura, la follia di questi giorni
NESSUNA PAURA
Fortunatamente, non conosco la paura. Chi ha vissuto in campagna per tanto tempo, ha l'abitudine di rispettare gli avvenimenti che il tempo ci offre, e di accettarli. Vedevo la fatica e il peso della morte di un animale, assistevo all'uccisione degli agnelli all'imbrunire perché dovevano essere venduti, e il ricavato sostentava la famiglia. Vita e morte erano nella campagna molto vicini e coabitavano. L'ansia di ora non è la paura, ma l'incertezza oltre che la pietas nei confronti di coloro che non ci sono più e delle loro famiglie. Un'ansia che è cancellata dalla presa di coscienza dell'essere sani nonostante tutto, e del privilegio di vivere in una casa circondata dal verde con una bella famiglia.
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