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Paolo Verri e il successo della Cultura, da Torino a Matera: «Ora tocca a Taranto»

di Eliana Di Caro

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7' di lettura

«Con la cultura non si mangia»: la frase infelice è rimasta appiccicata addosso a Giulio Tremonti da quando la pronunciò – era ministro dell’Economia nel 2010 - per giustificare i tagli dei fondi al ministero allora guidato da Sandro Bondi. Proprio in quella fase, in cui l’Italia era schiacciata dalla crisi, il manager culturale Paolo Verri era stato invitato in Basilicata a tenere una lezione; un anno dopo sarebbe stato chiamato a coordinare il comitato per la candidatura di Matera a capitale europea della Cultura 2019: un obiettivo che al tempo – più che ambizioso – sembrava velleitario.

La storia di Paolo Verri, però, dimostra che con la cultura si mangia e, se c’è la volontà, si possono ribaltare destini apparentemente segnati. Lui la determinazione ce l’ha nel Dna, figlio di una mamma veneta emigrata a Torino dopo l’alluvione del ’59 nel Polesine: comincia a fare la sartina e poi arriva all’alta moda, la vera colonna della famiglia; il papà fa il rappresentante di abbigliamento per bambini. Sin da piccolo, il primogenito Paolo (nato nel ’66, poi arriva Perla nel ’73) coltiva la passione per la lettura inculcatagli dal nonno. «Accantonavo i soldi dei biglietti del tram, andando a piedi a scuola, per comprarmi i libri che mi piacevano alle bancarelle di corso Siccardi», racconta a Milano davanti a un tè da Marchesi, storica pasticceria non distante dall’Università Cattolica, dove si è laureato in Lettere. «Come regalo di Natale, in terza media - continua - chiesi a una zia tutte le opere di Pavese». I suoi interessi, già da ragazzo, erano diversificati: c’erano i libri, ma anche la passione per gli spazi urbani – «mi piaceva “camminare la città”, l’unico modo per conoscerla veramente» –, per la musica, per i viaggi. «I miei amici ed io a 17 anni siamo partiti per Napoli, Pompei, Ercolano e Paestum; nell’85 abbiamo fatto Torino-Capo Nord-Istanbul e ritorno in 31 giorni. Ciascuno portava un libro e poi ce li si scambiava, viaggiavamo con bagagli e risorse ridotti all’osso».

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L’approdo a Milano è fondamentale tanto quanto la formazione torinese. Verri vuol fare il giornalista, precisamente il giornalista della Terza Pagina. Frequenta i corsi da pendolare, il giovedì a Novara con Roberto Cicala (docente di Letteratura italiana e direttore editoriale di Interlinea, ndr) lavora al Centro novarese di studi letterari. La sua tesi di laurea sulla promozione del libro in tv, curata da Aldo Grasso, viene pubblicata dalla Eri. Con queste premesse, si capisce la scelta di Guido Accornero, nel ’93, di affidargli la direzione del Salone del Libro, dove Verri aveva cominciato come volontario sin dalla nascita della manifestazione del Lingotto, nell’88. «Dobbiamo rinnovare, rilanciare», gli dice l’ideatore del Salone. Verri aveva 27 anni. Farà il direttore fino al ’98, in coppia con Beniamino Placido: «Una figura straordinaria, io traducevo in realtà le sue idee. Ricordo le riunioni da Babingtons, in piazza di Spagna. Era un suggeritore e noi i suoi seguaci, uno capace di fare squadra, che non aveva bisogno di imporre nulla. La mia rete di relazioni invidiabile nasce da questo deposito, dal rapporto con due maestri: uno della produzione di contenuti (Beniamino Placido) e l’altro delle relazioni pubbliche istituzionali (Guido Accornero). Ricorderemo Placido a Matera, a febbraio, per i dieci anni dalla morte assieme al sindaco di Rionero in Vulture (paese della provincia di Potenza in cui l’intellettuale era nato, ndr)».

I risultati di questo affiatamento si vedono: nel primo anno del sodalizio, il Salone passa da 100mila a 200mila visitatori. Nel ’93 la manifestazione ospita Roy Lichtenstein, proiettandosi alle vette dell’arte internazionale. Poi sarà la volta del Salone della Musica, lanciato su Mtv Europe. Un percorso che finisce nel ’98, quando Verri va a dirigere la comunicazione dell’Associazione italiana editori. È il momento di Per un pugno di libri, il fortunato programma su Rai 3. «Ero a Chicago con l’Aie quando mi chiama l’assessore Alfieri, che si occupava della promozione di Torino. Mi dice “devi venire a lavorare in Comune: abbiamo in cantiere il progetto Luci d’artista, vogliamo sistemare i Murazzi, ci candidiamo alle Olimpiadi invernali del 2006”».

Il capitolo che si apre (o meglio si ri-apre) nel capoluogo piemontese è tra i più importanti nel curriculum di Verri, perché la città fa un balzo sul piano dell’immagine e della crescita. «Alfieri mi manda a Barcellona, in quel momento al massimo dello splendore: vado a scuola dal direttore del piano strategico della città catalana, per tre settimane, e imparo. Loro riunivano tutti sotto la stessa egida in una stanza, e finché non trovavano il punto di accordo non uscivano dalla stanza. Poi mettevano nero su bianco quel che si era deciso, perché nessuno disattendesse. Un modo di procedere impensabile in Italia. In poco più di un anno, dal settembre ’98 al febbraio del 2000, coordiniamo nove gruppi di lavoro che poi diventano sei e sottoscriviamo il primo piano strategico italiano». Il dato più interessante è il risultato successivo: «All’inizio di questa avventura chiedemmo al Censis di fare una ricerca su 4mila persone (2000 italiane e 2000 straniere) per misurare – attraverso un questionario - l’attrattività di Torino in termini di lavoro, studio, vacanze, impresa: nel ’98 l’immagine della città era appiattita sulla Fiat, i giornali trasmettevano al 90% un’identità basata sulla triade Agnelli/Fiat/Juventus; nel 2008 un’altra ricerca ha dimostrato che si erano formate e radicate tante idee diverse della città, la cui percezione era cambiata lungo la linea verticale dell’Europa (soprattutto in Scandinavia), e lungo l’Italia tirrenica, meno sul versante adriatico».

Siamo giunti alla fine del tè. È il momento di parlare di Matera 2019, partendo dalla conquista del titolo, tentando di fare un bilancio e di esaminare anche le voci critiche che pure non mancano. «Mi chiamò Salvatore Adduce, che sarebbe divenuto sindaco e ci credeva moltissimo. Quando ancora non era stato eletto, fece un filmato in cui, su un bus della Miccolis, si rivolgeva a una signora: “Sa che ci candidiamo a capitale europea della Cultura?”. E lei: “Cosa lo facciamo a fare?”. E lui “Si sbaglia. Ci rivedremo nel 2019”». Io detti la mia disponibilità. Il 29 luglio del 2011 costituimmo il comitato. Il primo anno fu dedicato solo allo studio: senza una solida base di conoscenze non si va da nessuna parte. Abbiamo studiato cosa volesse dire diventare capitale grazie al libro bianco pubblicato da Palmer, direttore di Glasgow 1990 e Bruxelles 2000. Nel 2012 cominciò il coinvolgimento dei cittadini, perno di tutta questa vicenda, collaborando con la tv Trm e con Radio 3 che già nel 2011 aveva esordito in città con il festival Materadio. Nel 2013 lanciammo il primo dossier Insieme (la partecipazione come metodo), e poi l’anno dopo il progetto Open future, con direttore artistico Joseph Grima: il design come motore della trasformazione urbana». Il 17 ottobre 2014, in piazza San Giovanni, il ministro Dario Franceschini pronuncia il verdetto davanti a una folla esultante. Sulle mostre, gli eventi, i concerti, le presentazioni di libri, gli spettacoli teatrali, i convegni, i film e le fiction si è scritto e si scriverà, così come sui numeri - inimmaginabili solo dieci anni fa - dei visitatori che hanno scoperto Matera e questo oggetto misterioso chiamato Basilicata. Cosa risponde invece Verri a coloro che rimpiangono un’impostazione diversa, centrata su un patrimonio sedimentato nel suo passato - anche sofferto - fatto di nomi e personalità come Carlo Levi, Adriano Olivetti e via dicendo? «Abbiamo lavorato benissimo con la Fondazione Sinisgalli a Montemurro, così come con la Fondazione Olivetti; abbiamo portato a La Martella (il borgo progettato da Ludovico Quaroni alle porte della città, ndr) gli spettacoli di danza contemporanea. A Palazzo Lanfranchi, dove c’è una mostra permanente di Carlo Levi, sono state lanciate le nostre principale iniziative. È chiaro, il dossier è incentrato sulla contemporaneità e il futuro, cioè quello che chiede l’Unione europea: chi ha imperniato la propria candidatura sul patrimonio esistente ha perso. La Fondazione aveva il compito di realizzare quel dossier e l’ha portato a termine. Peraltro il nostro programma è stato fatto da materani e lucani, con 27 associazioni sparse sul territorio». Toccherà alle amministrazioni a venire capitalizzare la visibilità e il successo di questa stagione con una corretta gestione e idee lungimiranti.

C’è poi la mancata occasione di un collegamento ferroviario nazionale, un vulnus per i materani, acuito dalla costruzione di un’imponente stazione disegnata da Stefano Boeri per le Ferrovie appulo-lucane (Fal), a scartamento ridotto e senza servizi adeguati. Verri sostiene che «da quando sono arrivato a Matera ho sempre pensato che la ferrovia ci fosse. Il punto è che le Fal devono entrare nelle Ferrovie dello Stato. È soft power, non hard power, è questione di orari e servizi. Quando c’è stato il G7 dell’Economia a Matera, tutti i protagonisti sono potuti arrivare in 45 minuti, un tempo perfetto per 70 chilometri commerciali. E allora? Perché non può valere per tutti? La gente scende a Bari Centrale e trova il binario per Matera. Per me la priorità assoluta del Sud è l’alta velocità Bari-Napoli. Dobbiamo puntare alle macro regioni e ridurre la complessità».

Il 20 dicembre si chiude l’anno di Matera 2019, con iniziative che dureranno 19 ore e 19 minuti, alla Cava del Sole, lungo la via Appia, dove tutto è cominciato lo scorso 19 gennaio. E dopo? «Sarebbe un onore lavorare per Taranto. È una grande sfida nazionale, ci riguarda tutti. Sono a disposizione del sistema Paese perché credo di avere le competenze culturali e organizzative che servono. A Taranto si gioca una partita fortissima; bisogna ricostruirne l’immagine, che non può essere solo l’Ilva. È una città solare, accogliente. Le spiagge più belle sono a Nord di Taranto. I suoi due isolotti devono diventare hub di attrattività turistica, così come il porto militare. Ricordiamoci che l’Italia è il Paese più amato al mondo. Siamo primi per quanto siamo amati, ma settimi per capacità attrattiva. Questo gap va colmato». A Paolo Verri piacciono le missioni difficili, quasi impossibili. Ma è sempre andata bene.

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