l’intervista

Parla Cesare Romiti: io, Cuccia e l’Avvocato: ecco la verità

di Paolo Madron

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8' di lettura

Articolo pubblicato il 15 febbraio 2009

A giugno compirà 86 anni, ma non li dimostra. Per la verità Cesare Romiti i suoi anni non li ha mai dimostrati. È sempre stato un esempio eclatante di come, felice eccezione, l'età anagrafica non renda giustizia a quella fisica, e ciò senza l'ausilio di creme, bisturi e tinture. Una longevità che si spiega forse col fatto che sulla ribalta ci è arrivato tardi, visto che in Fiat, l'inizio della sua rutilante vita pubblica, è approdato che aveva già passato i cinquanta. Carriera inarrestabile, la sua. Fatta di potere, successo, fortuna, qualche smacco e molta mondanità. Anche adesso, tanto che mentre parliamo lo chiama la Marisela Federici, regina dei salotti romani, per dire che sull'ultimo «Chi», il newsmagazine della Mondadori, c'è una foto a tutta pagina di loro due mentre si scambiano un bacio augurale. Un bacio, sotto forma di firma, Romiti lo ha appena dato anche alla Costituzione, apponendo il suo nome sull'appello in sostegno del Presidente della Repubblica patrocinato dall'Unità. Il che ha fatto subito strologare di un suo improbabile arruolamento tra le bandiere del Pd. Ed è da qui che cominciamo l'intervista.

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Da quando ha firmato l'appello dell'Unità in sostegno di Napolitano, molti hanno parlato di una sua conversione a sinistra. Vera o presunta?

Le cose sono molto più semplici. Due settimane fa, al premio Nonino, una signora bionda mi avvicina e mi dice: «Non mi saluti più?». Era Concita De Gregorio, che non vedevo da molto. Abbiamo parlato dell'appello, e le ho detto che lo avrei firmato senza alcuna difficoltà visto che sono per la Costituzione. Mi dispiace che in momenti così difficili per il Paese si possa attentare a uno dei suoi pochi pilastri rimasti in piedi.

Ma al di là della Costituzione, sul caso Eluana lei era per staccare la spina o no?

Ogni giorno in Italia e nel mondo ci sono i parenti di malati terminali che dicono a chi li cura: «Dottore, evitiamo sofferenze». E il medico spesso accondiscende.

Si è fatto un gran chiasso bipartisan...

Forse anche il padre doveva stare più silenzioso, per me il dolore è un fatto privato. Ma la cosa che più mi ha indignato sono stati i commenti volgari dei politici.

Qualcuno in particolare?

Quando si è detto che Eluana avrebbe potuto avere un figlio.

Ha ragione Mentana-Eluana o il Grande fratello?

Non ho mai visto il Grande fratello, ma credo abbia ragione Mentana.

I numeri dicono che l'audience la pensa diversamente.

Lei lo ha chiesto a me, non all'audience.

Non è di sinistra. Ma almeno le piace il Pd di cui un suo arcirivale prese la tessera numero uno?

Io non ho mai preso una tessera di partito. L'unica volta che ho pensato alla politica fu quando Silvio Berlusconi mi chiese di candidarmi a sindaco di Roma contro Walter Veltroni.

E lei?

Da bambino avrei voluto fare il segretario comunale di un piccolo paese, il guardiano di un faro o il direttore d'orchestra. Da grande mi sarebbe piaciuto lavorare per la mia città.

Ma Roma non è un piccolo paese...

Lo so, però mi sarebbe piaciuto lo stesso occuparmene. Comunque non se ne fece niente. Era prima di Natale, Berlusconi poi partì per le vacanze e qualche giorno dopo lessi sui giornali che aveva candidato Antonio Tajani.

Ci restò male?

Un po', ma mi consolai pensando a quel che mi diceva ogni tanto Enrico Cuccia quando mi lamentavo di qualcosa che non ero riuscito a fare. «Romiti, probabilmente la Provvidenza le ha messo una mano sulla testa».

La sua vita professionale si divide in due: un lunghissimo periodo in Fiat, e un breve dopo Fiat. Abbastanza per farsi molti amici e altrettanti nemici. Il primo fu Carlo De Benedetti. Si dice che fu lei a mettere la pulce nell'orecchio dell'Avvocato insinuando che stava scalando la Fiat.

Più che nemico l'Ingegnere è stato un mio rivale. Dirigeva la Gilardini che poi noi comprammo in cambio di azioni Fiat. La trattativa la fece con Gianni e Umberto Agnelli, spuntando una cifra che io certo non gli avrei mai dato. Quando entrò al Lingotto pensò di poterla fare da padrone assoluto.

Se fu così lo fece per poco...

Cento giorni in cui voleva cambiare tutto, comandare. Ma mi accorsi che certe sue operazioni non mi convincevano.

Quali?

Cose del passato.

Adesso anche De Benedetti si è quasi ritirato.

Ho letto che ha problemi con i figli, e poi non gli è riuscito di separare Espresso-Repubblica dalle altre attività. La realtà è che Carlo ha una vocazione spinta per la politica.

Chissà perché, ma quando ci sono di mezzo i giornali si litiga sempre.

Economicamente parlando, oggi l'editoria non è certo un affare. Il problema è che in questo Paese la stampa è considerata come uno strumento di potere. Allora uno in cambio ci può anche perdere dei soldi.

Nel '91 stava per comprare la Chrysler. Che cosa non funzionò?

Io e Gianni Agnelli avevamo concluso l'operazione con Lee Iacocca, ma Umberto Agnelli si mise di traverso. E l'Avvocato mi disse che non poteva andare contro suo fratello.

Uno dei tanti episodi dell'antagonismo tra romitiani e umbertiani. Da dove nacque la mitica rivalità?

Quando arrivai nel 1974 la Fiat era in gravissima crisi. Poco dopo sembrò che l'Avvocato entrasse in politica, anche se qualcuno lo voleva ambasciatore negli Stati Uniti nel caso in Italia i comunisti avessero preso il potere. Poi Umberto si candidò con la Dc, creando un pasticcio infinito. Ci furono molti contrasti, e io ero rimasto il solo a pensare all'azienda.

Umberto aveva anche una concezione diversa della gestione.

Umberto sosteneva la tesi che dovevamo tenere un profilo basso, fin quasi alla rassegnazione. Mentre i sindacati erano fortissimi e le Brigate rosse ammazzavano i nostri uomini. Io invece dicevo che bisognava parlare, reagire e agire.

Come finì?

Venne Enrico Cuccia in Fiat per dire all'Avvocato che il timone doveva tenerlo uno solo, cioè io. Umberto fu molto dispiaciuto.

Poi ci fu il feroce scontro con Vittorio Ghidella. Forse, a posteriori, troppo feroce.

Avevo una grande stima per Ghidella, tant'è che quando mi disse che non poteva convivere con Nicola Tufarelli alla guida dell'Auto, consigliai l'Avvocato perché scegliessimo lui. Stimavo l'uomo e la sua dedizione al lavoro. Mi colpiva quando diceva che alla sera mangiava nel gavettino, come un vecchio meccanico torinese.

Ma non esitò a sbarazzarsene senza pietà.

L'allontanamento derivò da fatti che non ho mai rivelato né intendo farlo ora. Agnelli nominò due persone di fiducia per giudicare il contenzioso, Franzo Grande Stevens e Vittorio Chiusano. Dopo venti giorni gli inviarono una lettera e l'Avvocato mi disse che Ghidella doveva lasciare la Fiat.

Quando si è incrinato il feeling con Gianni Agnelli?

Nel '93, quando l'Avvocato aveva promesso a Umberto che avrebbe preso il suo posto, e che anch'io sarei uscito: qualcuno della famiglia aveva messo Agnelli sul chi vive dicendo che avendo io in mano l'azienda prima o poi non avrei resistito a diventarne il padrone. E lì si raffreddarono temporaneamente i rapporti.

A pensar male si fa peccato ma quasi sempre...

In effetti era successo con De Benedetti, poi più di recente con Giuseppe Morchio. Ma io non ci pensavo proprio.

Agnelli la visse come un'imposizione di Cuccia, e lì si guastarono i rapporti anche con Mediobanca.

No, successe quando io me ne andai e la famiglia volle trasformare il patto parasociale con gli altri soci in patto di consultazione. Alcuni pensavano che fosse stata espropriata loro l'azienda e che era venuto il momento di riprendere il comando.

Si racconta che nel '93, quando Agnelli andò a Milano per informare Cuccia del suo cambio con Umberto, il banchiere si rifiutò di riceverlo.

Vero. Gli disse al telefono che se il motivo della visita era quello si poteva risparmiare il viaggio.

Un giorno ho chiesto a Vincenzo Maranghi di spiegare il legame tra lei e Cuccia. Lui allargò le braccia, poi parlò di attrazione degli opposti.

Ha sbagliato interlocutore, perché Maranghi è sempre stato molto geloso del mio rapporto con Cuccia.

Per forza, era convinto che lei potesse insidiargli il ruolo di erede designato.

Lo so, ma Cuccia voleva bene a Maranghi come a un figlio. Non ha mai avuto dubbi su chi dovesse essere il suo erede. E io, conoscendo il suo pensiero, non avrei mai violato il desiderio di vederlo suo successore.

Poi ci fu Tangentopoli, altro capitolo triste per la Fiat.

Fu una bruttissima storia.

Ne uscì perché i magistrati dissero che lei poteva non sapere.

Trovo che il capo di un gruppo delle dimensioni di Fiat poteva non sapere quel che succedeva in qualche sua controllata. Ma la cosa fu minata da un'accesa rivalità tra le Procure di Milano e Torino. M'interrogò Antonio Di Pietro e mi lasciò andare concludendo che non c'erano motivi per proseguire. Torino disse no, dobbiamo indagare anche noi. E lì successe una cosa molto grave che nessuno mai disse.

La dica adesso.

A un certo punto la Procura di Torino mandò a chiamare Enzo Gandini, l'avvocato della Fiat, e gli disse: «Non possiamo andare avanti con documenti che ci arrivano dagli avversari interni di Romiti».

A chi alludeva?

All'entourage di Umberto Agnelli. Mi fiondai dall'Avvocato che era in Svizzera e gli comunicai che se le cose stavano così me ne sarei andato. Allora Agnelli, a seguito dell'incontro di Gandini con gli inquirenti, ebbe un colloquio personale riservato in Prefettura. Subito dopo mi pregò di continuare il mio lavoro.

Nel '98 arriva a Milano in Rizzoli. Mi ricordo una copertina di «Panorama» con una foto di lei in Galleria, posa statuaria, e sotto un titolo: «Il ciclone». Invece fu solo un venticello.

Fui frenato dalle molte raccomandazioni dell'Avvocato di andarci cauto con i giornali. Lo diceva perché aveva un debole per la stampa, gli piacevano i giornalisti.

Me lo raccontò suo cognato Carlo Caracciolo. Disse però che gli rifiutò i soldi quando l'«Espresso» era in difficoltà.

La trattativa la feci io. Dissi a Caracciolo che gli avremmo dato i soldi della Fiat se lui ci dava in garanzia le azioni dell'«Espresso». «Mai e poi mai», mi rispose. E allora non ne facemmo nulla.

Stavamo parlando di Rizzoli.

Sa di che cosa mi vanto del periodo in cui sono stato presidente? Di aver impedito qualunque interferenza dei politici nell'ambito dell'azienda. E sapesse quanti sono stati i tentativi che io ho stoppato violentemente.

Da parte di chi?

Di molti: destra, centro e sinistra. Ma anche gli azionisti ci si mettevano d'impegno. Una volta un consigliere ce l'aveva perché il Corriere aveva scritto un paio di articoli sulla Banca d'Italia che non erano piaciuti a qualcuno. Mi chiese per lettera la testa del direttore, che era Ferruccio de Bortoli. Io gli dissi: «Benissimo, porto la sua richiesta in consiglio d'amministrazione». Lui allora si riprese la lettera e la stracciò.

A un certo punto lei se la prese anche con i giornalisti invitandoli a tenere la schiena dritta.

Fu a un convegno a Venezia. C'era anche Eugenio Scalfari. I giornalisti denunciavano che la categoria pativa troppe pressioni. Io dissi: «Vergognatevi, se avete coraggio tiratevi su i pantaloni e andate avanti senza lamentarvi».

Perché da noi il Corriere della sera è l'ombelico del mondo?

Mah, è il giornale in cui s'identificava la borghesia. Tutti ci volevano mettere un piede dentro. Una volta, alla scadenza del patto di sindacato, io sostenni che di azionisti ce n'erano già troppi. Ma Giovanni Bazoli disse che l'Avvocato, già malato, gli aveva chiesto di farne entrare un altro paio.

Ha vinto l'Avvocato. Solo che adesso sono diventati diciassette.

Infatti sono tanti, diversi uno dall'altro, e non tutti che amano veramente i giornali e l'editoria.

Lei punzecchiava Agnelli persino sul suo diritto di nomina del direttore.

L'Avvocato aveva due passioni...

I giornali e le donne...

Allora facciamo tre: giornali, diplomazia e donne. I giornali lo capisco bene, hanno tanto intrigato e divertito anche me.

Anche le donne se è per questo, ma ne parliamo dopo. Agnelli aveva stretto un gran rapporto con Paolo Mieli.

Vero, lo divertiva e sapeva intrattenerlo. Ma sa come definiva Mieli? «È come la saponetta che uno tiene mentre si fa la doccia. Ti sfugge sempre di mano».

Molti dicono che il suo errore sia stato di aver trasformato Rcs in un'azienda familiare: lei presidente, suo figlio Maurizio amministratore delegato.

So che alcuni la pensano così, e anche mio figlio Maurizio ha fatto questa considerazione.

E lei che cosa pensa?

Penso che Maurizio abbia fatto un ottimo lavoro.

L'ha mai sfiorata l'idea che sia stato lui a danneggiare lei?

Penso di no, anche se i rapporti tra padri e figli sono sempre molto delicati.

Sta di fatto che uscito dalla Fiat lei aveva messo in piedi un piccolo impero industriale: Rcs, Impregilo, Aeroporti di Roma, Valentino... Com'è che perse tutto?

Quando arrivarono altri azionisti non ci siamo più trovati.

Forse un bravo manager non è detto sia anche un bravo padrone.

Può darsi. Ben vengano tutte le critiche. Ma io non ho mai accettato quello che i cosiddetti padroni hanno accettato in tanti anni di vita industriale del Paese.

Per esempio?

L'essere accomodanti, cosa che ha portato gente di qualità mediocre a occupare posti importanti. Ma ha anche portato il Paese nelle condizioni disperate in cui si trova ora.

È ancora presidente onorario di Rcs. Come finirà?

Hanno avuto bravi manager. Spero che i soci facciano il loro mestiere senza occuparsi dei contenuti del giornale, e che soprattutto se ne assottigli il numero.

Lei è sempre stato uno di età anagrafica molto superiore a quella che dimostra...

Sa a quanti anni sono entrato in Fiat?

Se non sbaglio a 51. Un giorno il procuratore Sandrelli di Torino disse di lei ammirato: «L'ho interrogato per otto ore e non mi ha mai chiesto di andare a far pipì».

Magari invece pensava che fossi malato...

La bontà della sua prostata introduce un tema privato, ma vorrei che ne parlasse lo stesso. Lei è sempre stato un uomo molto esuberante, che viveva le sue storie sentimentali non certo di nascosto.

Ci crede se le dico che il più grande dolore della mia vita è stato quando ho perso mia moglie?

Ci credo. Ma uno potrebbe chiederle conto di questa sua doppia morale.

Non era una doppia morale. Lei c'era, era un punto di riferimento fondamentale. Poi è vero, anche nei sentimenti uno dovrebbe essere coerente. Ma io sapevo che la mia casa era là, che sarei sempre tornato. Anche se mia moglie Gina ne ha sofferto molto.

E i suoi figli?

I miei figli li ha sempre curati lei. Però a diciotto anni mi hanno regalato una targa che tengo appesa dove hanno riconosciuto che l'esempio è la più alta forma di autorità da me esercitata.

L'Avvocato che cosa diceva di questo suo attivismo sentimentale?

Lo divertiva. Una volta mi consegnò una lettera anonima che gli era arrivata. Mi disse: «Senta Romiti, mi sembra giusto dargliela. Ma sapesse quante ne ha date Valletta a me...». Invece la cosa più bella in materia me la disse Enzo Ferrari.

Che cosa le disse?

Pranzando una volta a Fiorano mi disse: «Io so che lei sta facendo carriera e sarà un uomo di grande successo. Ma si ricordi che accanto a un uomo di successo ci deve essere sempre una donna». Io lo guardai, lui si fermò un attimo e poi aggiunse: «Naturalmente cambiandola ogni tanto».

Conosco donne che si innamorarono follemente di lei e soffrirono molto quando le lasciò.

Ah sì? La prego, non mi dica i nomi...

Io non le dico i nomi, ma lei mi dica se ha rimpianti.

Forse per certi interessi che non ho potuto coltivare. In Fiat lavoravo dodici ore al giorno e mi rimaneva poco tempo per il resto.

Dopo che è uscito non ha mai parlato pubblicamente di Fiat. Faccia un'eccezione e mi dica solo se le piace Sergio Marchionne.

Alla Fiat auguro tutto il bene possibile. Ho incontrato Marchionne appena nominato alla guida dell'azienda. Venne a trovarmi a Milano con John Elkann. Mi disse che mi avrebbe invitato a pranzo al Lingotto. Dopo di allora non ci siamo più visti. Ma ho avuto la netta sensazione che qualcuno gli avesse detto che era meglio non mi frequentasse.

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