legge fine-vita

Parlamento dormiente sul suicidio assistito

Nonostante la sollecitazione dell’Alta Corte, nulla è stato disciplinato

di Carlo Melzi d'Eril e Giulio Enea Vigevani

Roma, 23 ottobre 2018: Marco Cappato con la compagna di Dj Fabo, Valeria Imbrogno, al termine dell'udienza pubblica sul caso del suicidio assistito di Dj Fabo presso il palazzo della Consulta (Ansa)

3' di lettura

Dopo poco più di un anno dall’inizio della legislatura, è già tempo di consuntivi. La fine del governo guidato da Giuseppe Conte costituisce uno spartiacque, che si vada presto o tardi alle elezioni. E il consuntivo non può che partire dal Parlamento, organo che sembra sempre più abdicare al proprio ruolo fondamentale nel nostro sistema istituzionale.

La vicenda della mancata approvazione di una legge sulla disciplina del “fine vita” ci pare emblematica di questa rinuncia. Che cosa è successo?

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Nel novembre dello scorso anno, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi nel caso Cappato sull’art. 580 del codice penale che punisce ogni forma di agevolazione al suicidio, decide con saggezza di rinviare il processo al 24 settembre 2019, per dare alle Camere un tempo congruo per modificare una norma che, secondo la Corte stessa, non realizza un ragionevole bilanciamento tra i molti interessi e diritti coinvolti.

I giudici di Palazzo della Consulta riconoscono che il divieto assoluto di aiuto al suicidio, in casi drammatici quali quello di Fabiano Antoniani, sacrifica irragionevolmente valori fondamentali quali la dignità e l'autodeterminazione della persona. Ritengono, però, che la prima parola debba spettare ai rappresentanti del popolo, i quali hanno la possibilità di scegliere tra una pluralità di opzioni politiche, purché capaci di conciliare i diversi valori in gioco.

D’altronde, come sottolineato a fine luglio in un importante parere del Comitato Nazionale di Bioetica, solo il Parlamento è in grado di disciplinare dettagliatamente i temi più delicati del fine vita: la differenza tra assistenza medica al suicidio ed eutanasia; che la volontà della persona sia davvero libera e informata; i valori professionali del medico e degli operatori sanitari; le cure palliative. Il giudice costituzionale è un “legislatore negativo”, può demolire una norma ma non può certo disciplinare ex novo una materia.

Le Camere, di conseguenza, avevano l’occasione di usare il cesello e non la clava per rendere il nostro ordinamento penale coerente con la Costituzione e per regolare una grande questione dei nostri tempi, che investe le concezioni della vita e della dignità della vita.

Prima del caos istituzionale agostano, nessun testo condiviso era uscito dalle commissioni competenti e nulla compariva nel calendario dei lavori delle assemblee di settembre. Il Parlamento aveva dunque già abdicato alla propria funzione legislativa, lasciando alla Corte l’onere di procedere alla preannunciata dichiarazione di incostituzionalità del divieto assoluto dell’aiuto al suicidio.

Il dato sconcertante non è tanto che il Parlamento non sia riuscito ad approvare in tempo una legge ma che in fondo non ci abbia nemmeno provato.

Le audizioni sono state per lo più dominate da posizioni estremistiche e l’opinione pubblica è stata ben poco informata, salvo l’impegno della galassia radicale e dell’associazione Coscioni da un lato e della più autorevole stampa cattolica dall’altro. Le forze di governo hanno tenuto il tema fuori dall’agenda politica, forse per non mostrare all’opinione pubblica la profonda distanza che li divideva anche su questo tema. Lo stesso maggior partito di opposizione non ha ritenuto di raccogliere sino in fondo questa bandiera per proseguire Il cammino dei diritti civili inaugurato nella scorsa legislatura.

Il consuntivo è sconfortante: abbiamo avuto un Parlamento capace di intervenire in materia penale per proibire e punire sempre più severamente sulla base di emergenze più percepite che reali ma non per individuare soluzioni equilibrate che aggiornassero leggi antiche e incapaci di rispondere ai progressi della tecnica e alla domanda di nuovi diritti che emerge nella società. Un Parlamento impegnato quotidianamente in sterili agoni propagandistici o a ratificare supinamente decisioni del Governo, ma incapace anche solo di rivendicare, con un atto di orgoglio, il proprio ruolo e la propria dimensione costituzionale. Del resto, il Parlamento sembra assistere, quasi inebetito, al proprio scioglimento o, per un istinto di sopravvivenza, al proprio ridimensionamento con il taglio dei parlamentari e forse anche l’introduzione di confuse forme di democrazia diretta.

Ancora una volta, il legislatore ha lasciato ai giudici, costituzionali e ordinari, la difesa dei diritti, limitandosi ad astratte rivendicazioni di un primato della politica che in concreto rinuncia a esercitare.

Non dubitiamo che la Corte sappia dare una risposta chiara ed equilibrata alla questione dell’aiuto al suicidio, secondo i principi già tracciati nell’ordinanza del novembre scorso. Certo è che un Parlamento inerte su un tema così decisivo rischia di rendersi complice della progressiva delegittimazione della democrazia rappresentativa, forse nell’attesa di una “democrazia del popolo” che qualcuno vagheggia e di cui la storia ha tante volte dimostrato la pericolosità.

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