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Partire da Firenze, per investire nell’Italia delle città storiche

Un cuore contemporaneo calato in un involucro rinascimentale: 25 anni di collaborazione fra Minotti e l’architetto Rodolfo Dordoni, celebrati nel nuovo flagship store toscano.

di Alexis Paparo

L'esterno del flaship store Minotti a Firenze.

5' di lettura

L'inaugurazione del flaship store Minotti di Firenze, in partnership con Belvedere, è simbolo di tante cose, a partire dalla nuova direzione dell'azienda che guarda all'Italia non più come terra d'origine e luogo della produzione, ma come nuovo mercato e sfida imprenditoriale. «Minotti è partita 30 anni fa con la costruzione di una rete di monomarca all'estero (47 al momento) di grande valore internazionale, che ha permesso all'azienda di arrivare dove è oggi», esordisce Renato Minotti, insieme al fratello Roberto alle redini dell'azienda dal 1991. «Siamo stati sempre più profeti all'estero, ma adesso, proprio in Italia, abbiamo il progetto di dar vita una serie di flagship store nelle nostre città storiche più importanti. Un percorso che parte da Firenze, capace di unire un'internazionalità incredibile al suo essere culla della bellezza e della cultura del bello.

Da sinistra Roberto e Renato Minotti i due co-ceo dell'azienda fondata nel 1948, e Rodolfo Dordoni, art director del marchio.

Stiamo già mettendo a punto altri due aperture per il prossimo anno e l'obiettivo è quello di realizzare nel nostro Paese quello che abbiamo sviluppato all'estero, sempre con grande attenzione alla scelta dei partner, perché tutto parte sempre dalle persone».

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Lo store di Firenze, incastonato in Piazza Strozzi, è un volume esteso su due livelli di circa 250 metri quadrati, caratterizzato da arcate in facciata, capitelli, soffitti voltati, lesene all'interno. Al piano terra si trova la maggior parte della superficie di esposizione, mentre il primo piano ospita gli uffici operativi, una boardroom e l'ufficio direzionale. Una scatola contemporanea calata in un involucro rinascimentale, a cui ha lavorato il team guidato da Susanna Minotti, head of interior decoration dell'azienda. «Riflettenze, matericità, contrasti cromatici - realizzati sia attraverso cambi di pavimento sia con l'alternanza di texture alle pareti - danno vita a cambi di scenario che restituiscono sensazioni diverse in ogni ambiente. Abbiamo fatto largo uso di rovere color wengé e di acciaio spazzolato (che enfatizza il camino, protagonista del piano espositivo, ma non solo, ndr). È un materiale utilizzato molto nelle nostre ultime collezioni, con un chiaro rimando anni Settanta, ma anche un elemento che ci lega ancor di più a Firenze: proprio qui in città infatti Gae Aulenti ha firmato un progetto abitativo (l'appartamento all'interno di Palazzo Pucci, ndr) dove si fa un uso interessantissimo ed estensivo dell'acciaio».

La scala domestica dello showroom, la sua suddivisione in stanze che si susseguono, la collezione di opere d'arte contemporanea sullo sfondo, non fa che enfatizzare la sensazione di muoversi in uno spazio amico, in cui viene voglia di accomodarsi, passare del tempo, rilassarsi, scegliendo fra i sistemi di seduta Connery e Roger firmati da Rodolfo Dordoni e protagonisti assoluti degli spazi, oppure sui più raccolti Lars e Sendai della coppia giappo-danese Inoda+Sveje. Spicca la famiglia di contenitori e tavolini Boteco, che esprimono l'approccio razionalistico e la giustapposizione di materiali diversi di Marcio Kogan e le stondature della famiglia di sedute e tavolini Torii, disegnata da Nendo. Ed è proprio nella sala da pranzo, intorno al tavolo Marvin firmato da Rodolfo Dordoni, che chiedo all'architetto –art director dell'azienda e ospite d'onore per l'inaugurazione del flagship, e a Roberto Minotti di entrare nei dettagli di questi 25 anni di collaborazione.

Quali sono gli elementi che in tutti questi anni vi hanno tenuto insieme?

Rodolfo Dordoni: Siamo differenti ma molto simili. Nel nostro caso, che è singolare, questo equilibrio è costruito non fra due caratteri, ma fra tre, perché Renato, Roberto ed io dialoghiamo su argomenti uguali con punti di vista differenti. Aggiungo la tenacia e l'energia che ci impedisce di lavorare con monotonia. Riusciamo sempre a sorprenderci e questo è un grande stimolo.

Roberto Minotti: Abbiamo iniziato da trentenni, siamo maturati insieme e ci siamo messi in gioco coraggiosamente. Penso a uno dei primi prodotti realizzati insieme, la poltroncina Suitcase: forma squadrata, rivestimento in pelli stampate effetto pony look o coccodrillo. Un prodotto che restituiva una sensazione frizzante, diversa da quello che Minotti aveva fatto fino a quel momento. Con Rodolfo abbiamo un po' rotto gli indugi: questa sua capacità di lettura trasversale che va dalla moda all'arte, dall'architettura al design, ci ha indicato una strada interessante, sempre rispettosa del design della Minotti, ma arricchita di gesti, modalità, guizzi creativi che hanno permesso all'azienda di farsi notare nel mondo.

La cosa più incosciente che avete fatto?  

RD: Essere volutamente non omologati. La base della nostra collaborazione è sempre stata quella di lavorare su un progetto che vada al di là del prodotto, piuttosto una capacità di leggerlo in maniera differente, lavorandoci a 360 gradi, prendendo dei rischi. Eravamo 25 anni più giovani, ma il nostro modo di lavorare non è cambiato, si è consolidato, è maturato. La coerenza di questo processo creativo è quella che ha premiato allora e ci premia oggi.

Che cosa apprezzate l'uno dell'altro?

RM: Io di Rodolfo apprezzo l'estremo buon gusto, la sobrietà, la capacità di autoinnovare se stesso, e il suo essere un consigliere per nostra azienda. Mi sono laureato in architettura nel 1984, dopo aver lavorato con Rodolfo ritengo come di aver fatto un master, ho imparato tantissimo da lui.

RD: Nel mio percorso professionale, ho avuto modo di lavorare e di confrontarmi con tante aziende e questa è quella in cui ho imparato di più. È pragmatica, ha una chiave di lettura del lavoro a tutto campo, qui ragioniamo tutti di tutto. Poi volevo sottolineare il concetto di responsabilità nei confronti del mercato, che li fa lavorare anche il sabato. Tutto ciò dà gli strumenti per lavorare bene e consolidare un rapporto.

Tre parole che definiscono Minotti oggi.

RD: Roberto, Renato, Rodolfo! (ride).

RM: Minotti è pragmatica, andiamo sempre avanti con il nostro stile, le nostre logiche; rassicuranti nei confronti del nostro cliente e responsabile, qualitativamente attendibile.

RD: Definirei i Minotti generosi e corretti, e ci definirei tutti e tre vanitosi, un elemento che ci sprona a fare sempre meglio.

Il progetto a cui è più legato sviluppato con Minotti e perché.

RD: Il mio progetto migliore per Minotti è proprio Minotti. Sono fiero e orgoglioso di aver contribuito alla creazione di una nuova percezione del brand.

Parlando di uno degli ultimi prodotti disegnati, il sistema di sedute Twiggy che racconta una grande libertà spaziale, che cosa ritiene imprescindibile in una casa di oggi?

RD: Twiggy è nato per come siamo abituati a lavorare in azienda, mettendo insieme sensibilità idee diverse. Non avevo troppe aspettative né ansie, mi sembrava che avesse una sua ragione di essere all'interno di una collezione più ampia. Ha poi avuto una risposta di pubblico molto buona perché ha dato un segnale di versatilità. Nasceva come un pouf, poltroncina, e il fatto che sia diventato poi un sistema è lo stimolo per leggere quello che il prodotto significa. Negli ultimi anni abbiamo assistito all'evoluzione dell'arredo come total look, sulla scia della moda. Adesso tutto questo è negato, è fortissima la richiesta di personalizzazione. Il pubblico contemporaneo vuole essere libero di gestire se stesso e i propri spazi senza imposizioni e rigidità e Twiggy risponde a questa esigenza. Si acquista una “sensazione” di componibile, che poi si può muovere, combinare, adattare come si vuole alla vita e alle esigenze del momento e del futuro. Un divano finito è un po' un preconcetto, Twiggy è la mancanza di preconcetto.

Qual è il pezzo di design che in assoluto che le sarebbe piaciuto disegnare?

RD: Le automobili. Anche loro sono oggetti di design e colpiscono l'emotività di un pubblico multiforme.

Adesso anche la terza generazione della famiglia è pienamente coinvolta in azienda. Com’è collaborare con loro? Quali sono le meccaniche di questo passaggio di testimone?  

RD: In 25 anni il rapporto professionale ha assunto toni di amicizia e familiarità, e questo ha coinvolto anche le nuove generazioni dell'azienda. La volontà di condividere e la loro capacità di essere attenti ha reso il loro inserimento più naturale e il risultato è ad oggi un buon lavoro di team.

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