Patrick Zaki a processo in Egitto, ecco che cosa rischia
L’attivista egiziano, studente all’Università di Bologna, è in detenzione preventiva da quasi 700 giorni. Tutte le tappe della vicenda. E cosa rischia ora
di Alb.Ma.
I punti chiave
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Nel febbraio del 2020, uno studente egiziano dell’Università di Bologna vola a casa per qualche giorno di vacanza con la sua famiglia. Non è ancora tornato e rischia, oggi, cinque anni di reclusione per un articolo scritto nel 2019. La vicenda è quella di Patrick Zaki, l’attivista che si trova da quasi 700 giorni in detenzione preventiva in un carcere del Cairo, fino alla scarcerazione decisa il 7 dicembre.
Zaki è stato fermato subito dopo l’atterraggio nel suo paese, ricomparendo il giorno dopo con un mandato di cattura sulle spalle. Quasi tutte le accuse a sua carico sono cadute, ma l’unica rimasta in piedi («diffusione di notizie false») potrebbe costargli una condanna senza diritto di appello.
Chi è Patrick Zaki e perché è in carcere
Patrick Zaki è nato il 19 giugno 1991 a Mansura, in Egitto, da una famiglia che appartiene alla minoranza cristiano copta del Paese. È un attivista per i diritti umani e svolge ricerca per Egyptian Initiative for Personal Rights, una Ong egiziana, dove si occupa soprattutto di questioni di genere. Nel 2020 è in congedo all’Università di Bologna per frequentare il Master Erasmus Mundus in Women's and Gender Studies, una laurea magistrale che offre un curriculum ad hoc in studi di genere e delle donne. L’esperienza si interrompe quando viene sequestrato all’aereoporto del Cairo, in occasione di quella che avrebbe dovuto essere una pausa di relax dalla sua attività accademica.
I fatti si svolgono rapidamente. Zaki atterra nella capitale egiziana il 7 febbraio. Scompare nel nulla e riappare il giorno dopo, davanti alla Procura della sua città Mansura, a un centinaio di chilometri dal Cairo, in stato di fermo per cinque accuse che potrebbero costargli 25 anni di detenzione: minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo.
Nel corso del sequestro, secondo quanto sarà riferito dal suo avvocato, Zaki viene picchiato, torturato, sottoposto a elettroshock e minacce di ulteriori violenze, anche sessuali. Una dinamica che inquieta soprattutto per il déjà vu con l’omicidio di Giulio Regeni, il dottorando dell’Università di Cambridge rapito e ucciso sempre in Egitto per ragioni che devono ancora essere chiarite.
Per Zaki, il fermo è solo il preludio di un calvario che lo trattiene in una prigione del Cairo per 19 mesi. La sua permanenza in cella viene confermata da continui rinvii del processo, con intervalli prima di 15 e poi di 45 giorni. «Tra udienze non convocate e udienze svolte, ci saranno state almeno 20 occasioni in cui il giudice ha ritenuto che Patrick dovesse restare in carcere» dice Riccardo Noury, portavoce dell’organizzazione non governativa Amnesty International. Durante i mesi di custodia, Zacki ha potuto incontrare avvocati e familiari solo in rarissime situazioni.
E ora si va a processo? Con che accusa?
La prima udienza del processo si è svolta il 14 settembre, con aggiornamento fissato al 28 settembre, dopo un’improvvisa accelerazione che ha portato a due interrogatori di Zaki durante l’estate. L’inizio del processo era nell’aria anche per ragioni di tempistica, visto che la legge egiziana fissa a 24 mesi il tetto massimo di permanenza in carcere senza andare a giudizio. L’unica accusa rimasta in piedi dopo oltre un anno e mezzo, «diffusione di notizie false», è giustificata da un articolo firmato dallo stesso Zaki nel 2019, mentre quelle che gli imputavano attività sovversive sono crollate per assenza di prove. Nel servizio incriminato si parla delle discriminazioni subìte dalla minoranza cristiano-copta in Egitto, un contenuto assimilato dagli inquirenti alla propagazione dolosa di fake news.
Lo scenario peggiore si può materializzare, ora, in una condanna a cinque anni di detenzione, forse riducibili a poco più di tre dopo i 19 mesi di custodia già scontati. Un orizzonte meno inquietante rispetto ai 25 che la Procura avrebbe potuto infliggere con accuse di natura terroristica.
«Ma è comunque troppo perché Patrick non ha commesso alcun reato riconoscibile dalla comunità internazionale» spiega Noury, evidenziando quella che Amnesty chiama una «prigionia di coscienza». In caso di condanna, prosegue Noury, «la questione passa dal piano giudiziario al piano politico. Si potrebbe chiedere la grazia, ma l’Italia deve fare sentire la sua voce».
La Camera ha approvato lo scorso 7 luglio, con 358 voti a favore e 30 astensioni, una mozione che chiede al governo il conferimento della cittadinanza italiana a Zaki. Tre mesi prima si era espresso a favore dello stesso testo il Senato con 208 sì, nessun contrario e 33 astenuti. «La cittadinanza non muterebbe la situazione, ma sarebbe certamente importante» dice Noury.
La scarcerazione
Uno spiraglio, finalmente, per Patrick Zaki si è aperto il 7 dicembre, quando il tribunale egiziano di Mansura ha ordinato la sua scarcerazione in attesa della prossima udienza del processo fissata a febbraio. Lo studente egiziano, però, «non è stato assolto» dalle accuse: lo hanno riferito alcuni avvocati al termine dell'udienza.
Gli altri «casi Zaki» nascosti in Egitto
Vicende come quella di Zaki non sono isolate in Egitto. Anzi. Gruppi di attivisti per i diritti umani stimano che gli istituti penitenziari egiziani ospitino 60mila prigionieri politici, cifra che corrisponderebbe a oltre la metà rispetto a una popolazione carceraria di circa 114mila persone (dato che a sua volta, precisa Amnesty International, rappresenta una pericolosa forma di sovraffollamento rispetto a una capacità di 55mila persone).
La composizione dei «prigionieri di coscienza» offre uno spaccato interessante sulle misure repressive imputate al governo del presidente al-Sisi, visto che la platea di detenuti include figure che non sono direttamente elgate alla militanza politica: giornalisti, avvocati, blogger, accademici. «Ci sono migliaia di casi simili - dice Noury - Si parla di un’intera generazione “perduta” nel Paese. Le alternative, del resto sono due: o si va all’estero, o si rischia di finire in carcere».
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