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Sondaggi, Pd in discesa di un punto al mese. La fatica di Letta per anticipare (non troppo) il congresso

All’assemblea del partito il compromesso tra le correnti: primarie fissate il 19 febbraio 2023

di Emilia Patta

Letta: “Governo si è mosso fino adesso con un orizzonte corto davanti”

4' di lettura

Il Movimento 5 stelle sembra proprio aver superato il Pd, o almeno è stabilmente a fianco. Come dimostra la “supermedia” Youtrend/Agi effettuata il 17 novembre (si tratta di una media ponderata dei sondaggi nazionali sulle intenzioni di voto dei 15 giorni precedenti, da Swg a Tecnè, da Noto a Demos a EMG): in 15 giorni il partito di Giuseppe Conte è arrivato al 17,4% guadagnando lo 0,8, mentre il Pd è sceso al 16,8% perdendo lo 0,6%. Il tutto mentre quello che dovrebbe essere il nemico comune, ossia il partito della premier Giorgia Meloni Fratelli d’Italia, è ormai al 30% dal 26% raccolto il 25 settembre.

Se il Pd nel guado congressuale perde un punto al mese

Se si considera che alle elezioni il Pd ha preso il 19% dei voti e il M5s il 15,6%, i democratici sembrano aver perso in poco meno di due mesi il 2,2% dei consensi e i pentastellati sembrano averne guadagnati 1,8%.

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«Se il trend dovesse continuare - è l’amara considerazione di un dirigente dem - tra quattro mesi saremo arrivati al 12,4....». Già, perché inizialmente le primarie conclusive del congresso erano state fissate al 12 marzo. Ed è chiaro che un Pd in mezzo al guado di una discussione congressuale “costituente” a tratti filosofica (chi siamo, dove andiamo e perché ci andiamo) e per di più con un leader di fatto dimissionario e quindi solo traghettatore - Enrico Letta ha chiarito fin dal giorno dopo la sconfitta elettorale che non si sarebbe candidato alla successione di se stesso - è una sorta di terra di nessuno esposta ai colpi degli ex alleati del campo largo che mirano a prosciugarne il più possibile il bacino elettorale dei dem: da una parte il M5s, che punta ai voti più di sinistra e “antagonisti”, dall’altra il Terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi, che punta ai voti cosiddetti rifomisti dell’area liberal-democratica e cattolica.

Letta e la fatica di anticipare le primarie da marzo a gennaio

Da qui la fatica di Sisifo che ha fatto Letta, nelle ultime settimane, per tentare di anticipare i tempi. Nella convinzione che ormai solo una nuova leadership sarà in grado di rilanciare il partito e di riportarlo al centro dell’area di opposizione al governo di destra-centro guidato da Meloni. Il segretario avrebbe voluto fin dall’inizio la conclusione del percorso congressuale a fine gennaio: in questo modo le candidature si sarebbero formalizzate entro Natale avviando subito il confronto anche mediatico tra i principali competitor. E la storia dei congressi del Pd insegna che quando scendono in campo i candidati i sondaggi premiano. Mentre una discussione tutta incentrata sui temi filosofici della fase “costituente” sarebbe poco comprensibile all’esterno e sicuramente poco attrativa.

Il compromesso delle correnti sul 19 febbraio: basterà?

Ma a fine gennaio non si può. Troppo presto per i dirigenti dem e i capicorrente che temono di essere “rottamati” dal nuovo leader. Soprattutto se il nuovo leader dovesse essere il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, che si appoggia a una fitta rete di amministratori e sindaci e nel partito è fin qui supportato solo dagli ex renziani di Base riformista, la corrente che fa capo all’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Bonaccini, d’altra parte, ha chiarito per tempo che serve un radicale ricambio di classe dirigente. Questo spiega perché molti dirigenti che non vengono dalla storia Pci-Ds come Dario Franceschini stiano puntanto, nella speranza di condizionarla, sulla neo deputata Elly Schlein, scesa in campo nei giorni scorsi con una piattaforma molto di sinistra e “movimentista”. Insomma, per tentare di fermare la corsa di Bonaccini occorre più tempo. Da qui il compromesso del 19 febbraio, con le candidature ufficiali che restano fissate a fine gennaio. Ancora due mesi di agonia?

Schlein-Bonaccini, confronto identitario. A rischio scissione

Sullo sfondo un confronto identitario che per i dirigenti più affezionati al Pd del Lingotto, nato sull’intuizione di Walter Veltroni di unire i diversi riformismi (socialista, liberale e cattolico), potrebbe segnare la fine del partito così come lo abbiamo conosciuto in questi quindici anni. Con il rischio altissimo di una nuova scissione, questa volta più consistente delle altre. Schlein, così come l’emergente giovane capo della sinistra Brando Benifei, arriva a mettere in discussione la linea atlantista fermamente tenuta da Letta sulla guerra in Ucriana con frasi che ricordano il M5s di Conte («ora basta inviare armi alla resistenza ucraina, lavoriamo alla pace).

Non solo: sotto attacco è tutta la stagione riformista degli ultimi governi a guida Pd (Renzi e Gentiloni), con il Jobs Act elevato a totem da abbattere per tornare un po’ utopicamente al mercato del lavoro pre-crisi economiche.

La «Rivoluzione d’ottobre» rivalutata

Quanto ai riferimenti storico-culturali, è Stefano Ceccanti, costituzionalista e veltroniano della prima ora (scrisse lui lo statuto del Pd, assieme a Salvatore Vassallo), a sottolineare come nella sinistra del Pd sia ancora vivo nientemeno che il mito della Rivoluzione d’Ottobre: «Alcune riflessioni che Goffredo Bettini autorevolemente rilancia mi sembrano difficilmente compatibili con il profilo che ha sin dall’inizio il Pd e che appaiono quindi preoccupannti se dovessero rivelarsi tesi maggioritarie. Tra queste c’è la rivalutazione della Rivoluzione d’ottobre, della pretesa spinta propulsiva iniziale. Ora, in Europa e nel mondo le forze di centrosinistra si sono in realtà identificate nella Rivoluzione democratico-liberale del febbraio 1917 che aveva già demolito il regime zarista: Kerenskij, non Lenin...».

Ci sarà ancora spazio per i liberal-democratici e i cattolici democratici in un Pd che dovesse virare a sinistra? E viceversa?

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