MODA E GEOPOLITICA

Pechino insiste nel boicottaggio ai marchi che non vogliono più usare il cotone dello Xinjiang

H&M, Nike, Adidas e Burberry sono tra le aziende più colpite dalla reazione dei consumatori seguita a quella del governo cinese, che nega ogni violazione dei diritti umani nella regione

di Giulia Crivelli

6' di lettura

Non sarà semplice risolvere la questione dei rapporti tra alcuni marchi della moda occidentali e il Governo cinese. Altrettanto complicato sarà porre fine ai boicottaggi in atto in Cina ai danni di quegli stessi marchi della moda da parte dei consumatori cinesi. Perché è questo che accade: se il governo centrale decide che un brand, un’azienda (o, naturalmente, un altro Paese) ha commesso uno sgarbo, un reato o addirittura un crimine nei confronti di Pechino, la condanna viene immediatamente accettata dai cinesi – o così sembra – e amplificata dalla comunicazione digitale. Nella moda fino a oggi avevamo assistito a passi falsi, più che veri e propri sgarbi intenzionali: i marchi occidentali faticano ancora a comprendere cosa può urtare la sensibilità culturale o il nazionalismo cinese. Il precedente più famoso è quello del novembre 2018, quando la maison Dolce&Gabbana fu costretta ad annullare uno grande evento programmato a Shanghai (sarebbe stata la più imponente sfilata mai organizzata da Domenico Dolce e Stefano Gabbana) per una serie di spot sul web che furono considerati offensivi. In quel caso, il primo passo non lo fecero le autorità centrali, bensì un sito di news sul sistema moda, Diet Prada , che, partendo da un post sul suo account Instagram, funzionò come artefice di una palla di neve che diventò, nel giro di poche ore, valanga, vista la velocità della comunicazione nell’era di internet. Tra Diet Prada e Dolce&Gabbana è in corso una battaglia legale, perché gli avventati commenti apparsi su Instagram causarono un danno d’immagine ed economico molto grave al marchio e ai due stilisti. Ad alcuni l’intera vicenda sembrò “montata ad arte” o comunque frutto di una visione in malafede della genesi degli spot incriminati. Ma tant’è.

Un’escalation voluta dalle autorità

Quello che sta succedendo oggi a marchi come H&M (i suoi circa 400 negozi in Cina sono stati chiusi), Nike, Adidas e Burberry è molto diverso. All’origine del boicottaggio agli acquisti online e offline non ci sono piccoli (grandi) errori di comunicazione o marketing, ma una presa di posizione netta da parte, in particolare, del colosso svedese, sulla questione dello Xinjiang, un territorio della Cina al quale è riconducibile il 30% della produzione totale di cotone del Paese e dal quale H&M non vuole più importare cotone. Situato al confine con Mongolia, Russia e Kazahkstan, lo Xinjiang è grande cinque volte l’Italia ma abitato da soli 22 milioni di persone, oltre metà delle quali di etnia uigura e di religione musulmana. Sono oltre 50 anni che la regione mostra spinte indipendentiste, ma Pechino ha sempre negato qualsiasi apertura sul tema.

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L’approfondimento della Cnn: H&M and Nike are facing a boycott in China over Xinjiang cotton statements

Il tallone d’Achille della Cina e lo Xinjiang

Primo, perché, proprio come l’ex Urss di Putin, non può permettersi che singoli territori manifestino desideri di maggiore indipendenza. Secondo, perché se la Cina ha un tallone d’Achille è la scarsità di materie prime e lo Xinjiang ne ha molte. Terre rare, persino un po’ di petrolio e grandi coltivazioni, a partire dal cotone. Per spegnere ogni dissenso, Pechino è accusata da anni di violente repressioni della “minoranza” uigura: usiamo le virgolette perché tale è sul totale della popolazione cinese (1,4 miliardi), ma sicuramente non lo è nella regione. Secondo gli ultimi rapporti di Ong da sempre impegnate a difendere i diritti (forse sarebbe meglio dire la sopravvivenza) degli uiguri, oltre un milione di persone (ma ci sono stime che fissano la cifra a tre milioni) sarebbero “internate”in campi di lavoro e una parte di questi campi sarebbe adibito proprio alla coltivazione del cotone (il 90% della superficie destinata a coltivazioni agricole dello Xinjiang è dedicata proprio al cotone e nella maggior parte dei casi se ne occupano piccole aziende a conduzione famigliare). Da qui la presa di posizione di H&M, che risale in realtà al settembre del 2020, ma che è stata ribadita con forza una decina di giorni fa con la decisione di non utilizzare più cotone proveniente dallo Xinjiang.

La denuncia dell’Onu

Non sono solo le Ong ad accusare la Cina: attivisti ed esperti di diritti umani presso le Nazioni Unite hanno accusato il Paese a più riprese e con sempre maggiori prove di utilizzare la detenzione di massa, la tortura, il lavoro forzato, la sterilizzazione e la separazione dei bambini dai loro genitori degli uiguri nello Xinjiang. La Cina ha sempre respinto le accuse sui campi di internamento, in cui si stima, appunto, che siano state detenute oltre 1 milione di persone dal 2017, affermando che si tratta di «centri di istruzione professionale» per sradicare l’estremismo e il terrorismo.

Le (caute) reazioni occidentali

La gravità delle accuse ha spinto Regno Unito, Canada, Unione Europea e Stati Uniti (che peraltro, quando Donald Trump era presidente, avevano sollevato il tema molte volte) hanno annunciato sanzioni contro i funzionari cinesi gli Stati Uniti hanno introdotto un disegno di legge che vieta l’import per le merci prodotte nello Xinjiang (dalla regione viene anche la maggioranza della materia prima necessaria a produrre derivati del pomodoro, come il concentrato, usato anche in Europa e in Italia). Pechino ha immediatamente reagito, sanzionando quattro entità britanniche e nove individui accusandoli di «diffondere menzogne» sulla regione dello Xinjiang e il Consiglio nazionale cinese del tessile e dell’abbigliamento ha esortato i marchi internazionali a porre fine al loro «cattivo comportamento», inclusa l’esclusione del cotone Xinjiang dalla loro catena di approvvigionamento, per rispetto dei clienti.

La campagna mediatica prosegue

Il Global Times di oggi (si veda l’immagine in alto) titolava in prima pagina: Genocide label on Xinjiand «biggest case of frame-up»: il riferimento a un genocidio nello Xinjiang è il più grave caso di montatura (occidentale) ai danni della Cina. Venerdì 26 marzo un altro quotidiano cinese tradotto in inglese, il Shangai Daily, titolava: Global brands feel the ier of netizens, ovvero, i marchi globali provano cosa significa l’ira del popolo di internet.

Articolo di Shanghai Daily: Official denies forced boarding of students in Xinjiang

La campagna contro H&M

Il bersaglio principale è la svedese H&M, che nel 2020 ha avuto un fatturato globale di circa 20 miliardi di euro, il 5,2% dei quali riconducibile alla Cina. Una percentuale molto più bassa rispetto ai marchi di alta gamma, che possono arrivare ad avere il 40-50% del giro d’affari in Cina, ma si tratta comunque di una cifra considerevole, specie al tempo della pandemia, dove ogni mercato, tranne l’Asia, appunto, continua a calare. La tv statale cinese Cctv ha invitato i consumatori cinesi al boicottaggio contro H&M, usando anche i suoi account social. Il Global Times, che è un organo del partito comunista cinese, ha poi citato altri marchi che hanno fatto dichiarazioni negative sul cotone dello Xinjiang negli ultimi due anni, compresi alcuni di quelli che hanno aderito alla Better Cotton Initiative (un’organizzazione globale no profit per l`approvvigionamento sostenibile del cotone) tra i quali Burberry. Il risultato? Diversi attori e attrici cinesi hanno annunciato di aver concluso la loro collaborazione con Nike, a sua volta colpevole di aver sollevato la questione Xinjiang.

Articolo del Global Times: Xinjiang’s white cotton will not be stained: Industry associations condemn Western boycott

La posizione di Ovs

In Italia finora solo Ovs ha sottoscritto l'impegno pubblico a dismettere gli approvvigionamenti dallo Xinjiang e uscire dalla regione uigura. Si tratta, secondo il comunicato diffuso da Abiti Puliti, di un passo significativo per i diritti del popolo uiguro. «Se il mondo della politica ha fatto dei timidi passi avanti, quello dell'economia non vuole sentire ragioni: sono ancora pochi i marchi che hanno preso le distanze dalla regione – si legge però in una nota della ong – e, dal momento che la situazione degli uiguri è ormai nota da anni, ignorarla volutamente è diventato inaccettabile».

Pechino: state fuori dalle nostre questioni interne

«Coloro che tentano di sanzionare le aziende dello Xinjiang nuoceranno solo a loro stessi; imprese come H&M dovrebbero essere più vigili e distinguere meglio il giusto dallo sbagliato»: sono alcune della dichiarazioni fatte ieri da Xu Guixiang, portavoce del governo della regione autonoma dello Xinjiang Uygur, durante una conferenza stampa a Pechino, sostenendo che le imprese non dovrebbero politicizzare il comportamento economico. «Il popolo cinese, compreso quello dello Xinjiang, ha espresso la sua indignazione per le sanzioni su soggetti ed entità rilevanti della regione autonoma da parte di forze esterne, applicate con il pretesto di questioni sui diritti umani», ha affermato Xu, aggiungendo che il popolo cinese non deve «essere offeso» e che coloro che brandiscono il potere delle sanzioni contro le aziende dello Xinjiang finiranno per danneggiare solo loro stessi. Sottolineando che il rispetto per la sovranità nazionale e che la sicurezza e l’integrità territoriale sono le norme fondamentali del diritto e delle relazioni internazionali, Xu ha dichiarato che gli affari dello Xinjiang sono questioni puramente interne della Cina e che nessuna forza esterna ha il diritto di interferire con esse, né tantomeno di imporre una giurisdizione a lungo raggio e delle sanzioni.

Un’apertura all’Onu

Un segnale di ottimismo potrebbe venire dalle parole del portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian: «La porta dello Xinjiang è sempre aperta e accogliamo con favore la visita del commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite», ha detto commentando le dichiarazioni del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres sulle trattative con Pechino per una missione «senza restrizioni».

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