Pedalare serio e Felice
di Alfredo Sessa
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Per capire chi era veramente Felice Gimondi, campione di ciclismo degli anni 60 e 70, bastava osservarlo nei pochi momenti di relax di una grande corsa a tappe. Cronoprologo a squadre del 54° giro d’Italia, 20 maggio 1971, partenza da Lecce. Mentre tutte le squadre pedalicchiano con andatura turistica, la Salvarani sfreccia indiavolata tra i monumenti del barocco con il suo capitano, Felice Gimondi, che spinge un rapporto durissimo e mette alla frusta i suoi gregari. Sibilo di tubolari, lampi di celeste, gocce di sudore e qualche bestemmia nel fendere due ali di folla. Ecco, Felice Gimondi era questo: serio, costante nell’impegno, pronto ad affrontare una noiosa tappa di trasferimento con lo stesso rispetto e la stessa professionalità con i quali affrontava un tappone di crudeli montagne mangia-ciclisti.
Se si rivedono le interviste televisive di Felice colpisce la sua capacità di ricordare tanto i grandi trionfi al Tour, al Giro e nelle classiche, quanto, fin nei piccoli particolari, le tappe più anonime e lontane nel tempo. Il tutto con una straordinaria memoria per nomi di luoghi che non aveva mai più rivisto, ma che snocciolava con noncuranza come se si trattasse dei paraggi della sua Sedrina. Il segno inequivocabile di una vita da ciclista vissuta con grande consapevolezza, chilometro per chilometro.
L’enigma Gimondi era nel motore e nella carrozzeria. In pianura, in salita e a cronometro sprigionava una potenza da grosso propulsore diesel senza tuttavia trasmettere sgraziate vibrazioni al corpo e alla bicicletta. Era bello da vedere, felice sintesi di velocità e forza fluida e sicura. Più locomotiva e meno airone di Fausto Coppi, di cui era considerato il moderno erede. Solo il suo viso tirato e il ghigno dello sforzo tradivano la fatica e l’umanità di una macchina lanciata in piena corsa.
Se vinceva, Eddy Merckx permettendo, bene. Se non vinceva, bene lo stesso. Gimondi aveva dato comunque un’immagine di grande qualità. Non polemizzava mai, rilasciava dichiarazioni sobrie, dure se necessarie, e soprattutto “faceva” cose. I suoi erano sempre fatti, solide e tangibili realtà. Da bergamasco concreto e operoso.
Se è vero che il posto dove nasci ti lascia addosso un’impronta indelebile, allora Gimondi era fatto a immagine della Val Brembana. Boschi e rocce, dolcezza e solidità, scoiattoli e fabbriche, sogni saldamente ancorati per terra. Il fruscìo del fiume Brembo sembra fare il verso ai raggi delle bici che percorrono la bellissima ciclabile che risale la valle. Vicino c’è Sedrina, la culla di Felice, ci sono le strade dove ha pedalato da bambino e da dilettante. È nato in riva al fiume, è morto in riva al mare a 77 anni, a Giardini Naxos, colto da un malore. Montagna e mare, un altro Giro d’Italia, l’ultimo.
«Ho solo due rimpianti. Aver lasciato spesso sola mia moglie nei primi anni di matrimonio. E non aver visto crescere le mie bambine. Sono cose che valgono più di tutte le vittorie del mondo» ha dichiarato Gimondi in un’intervista televisiva del 2016. Nessun dolore per una carriera scintillante, ma limitata dall’irruzione sulla scena del “cannibale” Eddy Merckx, al quale Gimondi invidiava lo scatto bruciante. Tra i due la dura rivalità sportiva si è stemperata col tempo in stima e amicizia.
Ma c’è un terzo rimpianto che Gimondi non ha mai confessato. Il non essere riuscito, da presidente della Mercatone Uno-Albacom, a evitare la tragedia di Marco Pantani. Un dolore che Felice non ha probabilmente mai elaborato dopo essersi speso, lui uomo sobrio e schivo, in un ruolo di consigliere e protettore di quel ragazzo così forte in salita quanto fragile nella vita. Fu proprio Gimondi a premiare Pantani sul podio del Tour de France del 1998. Era la prima vittoria di un italiano trentatrè anni dopo quella di Gimondi del 1965.
Al di là dei successi sportivi, di una cosa dobbiamo essere grati a Gimondi. Quest’uomo serio, costante, elegante e composto nella sua grinta e forza agonistica, ha contribuito a mantenere alta la popolarità del ciclismo durante gli anni del boom economico, quando la motorizzazione di massa sembrava irridere chi si ostinasse a pedalare e a faticare, e i corridori rischiavano di diventare personaggi un po’ patetici di un mondo che poteva scomparire. Con la sua eleganza e la sua forza Gimondi ha ricucito lo strappo, ha protetto lo spirito sacro del ciclismo, ne ha custodito gelosamente l’icona e l’ha tramandata, intatta, ai campioni di oggi.
Gli eredi di Felice sono più effimeri nei risultati, più ricchi, più circondati da una tecnologia che stupisce, ma sono sicuramente protetti da quella che oggi viene ormai chiamata “economia della bicicletta”. Andare in bicicletta è di moda, porta status, benessere, salute, sviluppa il turismo, crea indotto. Anche di questo, grazie, Felice.
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