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Pellestrina, lunga diga che dà brezze di felicità

Oltre la bocca di Malamocco c’è un mondo diverso: undici chilometri di un’isola, larga al massimo qualche decina di metri, che da sempre protegge Venezia e la laguna

di Teresa Cremisi

Illustrazione di Federico Tramonte

5' di lettura

Due topoloni. Ecco a che cosa mi fanno pensare gli autobus di linea che, sincronizzati, si staccano dal terminal del piazzale Santa Maria Elisabetta al Lido di Venezia. Dapprima, nel borgo, a passo d’uomo, poi via via più rapidi, sempre uno a pochi metri dall’altro. Saltano le fermate, svelti verso la meta, superano le bici, i monopattini e le automobili guidate da anziani lidensi, vanno indifferenti alle braccia alzate delle famiglie di gitanti che aspettano alle fermate. Sempre più agili e veloci, come ballando insieme: mica possono perdere tempo, loro. Vanno a Pellestrina: il traghetto li aspetta!

Superati gli Alberoni, rallentano. I due topoloni dal muso piatto salgono sulla rampa con la disinvoltura dell’abitudine e si sistemano, l’uno dietro l’altro, nel centro della chiatta, libera dagli ormeggi in men che non si dica. I marinai chiacchierano tra loro, lo sguardo è lontano, ma i gesti precisi.

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La navigazione attraverso la bocca di Malamocco dura abbastanza per preparare il viaggiatore a un mondo diverso: di qua il verde degli alberi di alto fusto e un faro bianco dall’aria smarrita, di là una striscia sottile, appena sollevata dall’orizzonte, giallognola e minerale. Una lunghissima diga. Undici chilometri, qualche decina di metri di larghezza. Ecco che cosa è l’isola di Pellestrina.

A sinistra il mare, blu come si conviene, con piccole onde bianche che s’inseguono. A destra la laguna, appena increspata, di colore cangiante dal verde fango al grigio azzurro. Le sue strade d’acqua sono segnalate dalle bricole, i pali conficcati tre a tre nel fondale. Mentre il traghetto s’avvicina all’approdo basta uno sguardo per capire dove siamo. Qualcosa ci dice che tutto è in ordine come è stato pensato. Destino delle lagune di tutto il mondo sarebbe quello di insabbiarsi col passare degli anni, di sparire prosciugate, per poi – forse – rinascere altrove. A Venezia non è così: la laguna si domina, si modella, si mantiene in buono stato. E si protegge.

Senza la protezione dei cordoni lagunari del Lido e di Pellestrina, niente laguna. Senza i murazzi che difendono la laguna, niente città-gioiello, niente architettura merlettata a cantare la gloria e l’audacia di una città-repubblica indipendente. Senza i palazzi e le chiese, addio civiltà orgogliosa. Senza orgoglio, inconcepibili le conquiste lontane. Senza avventure e spedizioni militari, non prende l’abbrivio la storia secolare. Per riassumere: senza questa ostinata volontà di piegare le leggi della natura, di costruire con l’acqua, di fare come se l’estensione acquea fosse una normale proprietà fondiaria da accudire e difendere, la civiltà veneziana non sarebbe esistita.

Pellestrina, terra argine, sarebbe stata travolta mille volte e non sarebbe quello che appare in un mite giorno di inizio luglio a chi scende, un po’ per caso, all’ultima fermata del bus di linea. Il capolinea sud. Per chi invece volesse continuare, basta aspettare un po’: sta per arrivare il traghetto per Chioggia e può cominciare un’altra storia. Se no, si torna indietro verso il borgo di Pellestrina, città principale dell’isola (si fa fatica a definirla così, tanto è diversa l’immagine che si presenta alla mente quando si pronuncia la parola «isola», che, a me e probabilmente a tanti, evoca una terra tondeggiante con un montarozzo in mezzo).

È passato da poco mezzogiorno, il sole è caldo e non c’è brezza. Il silenzio stupisce. Molte porte di casa semi-aperte, all’interno quiete e ombra. Grandi dimore di stile veneziano si alternano a piccoli edifici tinteggiati con colori stridenti. Che anche qui arrivi la moda del fluo, del verde acido o del rosa shocking che ha invaso Burano? Quel vezzo del nostro tempo per cui l’esagerazione fa colore locale?

Camminiamo dal lato «riva», quello della laguna. Qualche ciclista accaldato, con bandana e borraccia, automobili parcheggiate (talvolta, mi fa notare la mia amica, ricoperte da teloni protettivi, come una memoria viva degli anni Sessanta). I barconi da pesca dormono indolenti l’uno accanto all’altro. Carichi di catene, nasse, arnesi in metallo arrugginito. Costruite su palafitte a pochi metri dall’argine, un po’ sbilenche, casupole di pescatori si riflettono nell’acqua bassa. Hanno porte e finestrelle ritagliate come capita, talvolta una piccola piattaforma, i materiali più vari fanno del tetto e delle pareti un mantello di Arlecchino rappezzato con fantasia: la lamiera si sovrappone al legno di recupero, l’alluminio alla plastica sbiadita. Le guide turistiche vi diranno che sono «cason» e servono da rifugio ai pescatori. Noi ci siamo domandate a che cosa poteva servire un cason nell’epoca della miticoltura e della pesca industriale. Estraniarsi dalla vita famigliare?, forse. Alle donne i marciapiedi ornati di vasi e vasetti, fiori e piante di gelsomino e ortensie, sedie e tavolini per chiacchierare – agli uomini questi antri umidi e l’acqua che sale e scende lungo i pali, inesorabilmente e instancabilmente, ogni sei ore.

Pare gli abitanti discendano tutti da quattro famiglie chiozzote. E i nomi sulle porte e i cancelli dei giardini lo confermano: Vianello, Scarpa, Zennaro, Busetto… La città gloriosa è vicinissima, lì si sentono parlare centocinquanta lingue tutti i giorni, nelle calli e nei campi. Qui i secoli sono trascorsi senza grandi stravolgimenti, stessa parlata, pochi innesti di forestieri, le case passavano di famiglia in famiglia. Al Pellestrina Calcio, in anni non lontani, capitò di convocare diciassette giocatori di cui tredici si chiamavano Vianello. Per fortuna dell’arbitro, le magliette portano ben visibile il numero.

Il nastro di terra è solcato da due vie. La strada maestra, dove passano gli autobus, corre lungo i murazzi, e dunque lungo il mare e la riva lagunare dove si concentra la vita degli abitanti. A tratti regolari, stradine numerate permettono di passare da un lato all’altro: si chiamano «carizzate». Alcune sono chiuse, inglobate nell’abitato, somigliano a cortili di case, altre languono circondate da orti polverosi. Ma si capisce che fanno parte della struttura originaria. Servivano a trasportare i massi ciclopici dei murazzi, issati dalle chiatte ai carri, fatti poi scivolare e allineati uno accanto all’altro. Se chiudo gli occhi, mi pare di sentire le urla di incoraggiamento, il rumore delle corde che strisciano e si tendono.

Così abbiamo fatto: un’esplorazione a zig zag, dentro e fuori, passeggiata e traversata, riva e carizzate (lische sottili di questa terra-pesce), cappello in testa e poi bagno solitario, calura immobile e brezza marina, scarpe da tennis e piedi nudi sulla sabbia. Sulla spiaggia fragili capanne nate per una stagione, come quelle che i naufraghi costruivano con ciò che il mare ributta a riva; decorate con conchiglie rotte, arredate con sedie zoppe, tavolini che hanno vissuto dodici vite e drappi slavati che sbattono nell’illusione di fare ombra. Sono l’esatto contrario dei cason: aperte a tutti i venti. Mi appare a sorpresa una immagine fugace della felicità.

Un giorno d’estate in un luogo che non assomiglia a nessun altro. Un luogo in cui il cielo schiaccia la terra, in cui l’uomo è più piccolo, in cui le condizioni meteorologiche determinano il paesaggio più di ogni altra cosa. In questi lembi di terra cambia soprattutto il tempo che fa. Mentre, alla fermata Biblioteca di San Pietro in Volta, sotto tamerici che non fanno ombra, aspettiamo il bus-topolone per tornare in città, tutto tace.

Tornerò, tornerò in un giorno di bora, un giorno di tempesta. Le porte delle case saranno chiuse, i caffè sprangati, le onde sbatteranno sui murazzi. Mi concentrerò fino a sentire distintamente rumori vecchi di trecento anni: pulegge vibranti nello sforzo e massi trascinati verso il mare per difendere un’idea di città.

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