L’america AL VOTO / LO SPECIALE DI “IL”

Per chi tifa il Cremlino

Nel 2016, a Mosca, avevano brindato con lo champagne per la vittoria di Donald Trump. Oggi, però, le relazioni Russia-Stati Uniti sono pessime e la delusione è cocente. Certo non si può neanche propendere per Joe Biden... Insomma: se Putin dovesse votare il 3 novembre, si troverebbe di fronte a un dilemma quasi irrisolvibile

di Anna Zafesova

6' di lettura

Chi tra Donald Trump e Joe Biden sarà il 46° presidente degli Stati Uniti? Il voto del 4 novembre coincide con un'emergenza globale inedita che marca i contorni di un Paese sempre più complesso e dalle contraddizioni a volte poco leggibili, in particolare per noi cittadini del Vecchio Continente. Così abbiamo chiesto ad alcuni osservatori “speciali” di restituirci la loro analisi di quello che sta accadendo per provare a comprendere ciò che è ma soprattutto ciò che sarà. Si tratta di scrittori come nel caso di Ben Lerner, di David James Poissant, di Joe R. Landslale e di David Leavitt. Di musicisti: Sufjan Stevens. Oppure di un'artista visiva qual è Martha Rosler. Alla loro voce abbiamo aggiunto i nostri approfondimenti a partire da quello sullo stato della sanità americana di Emanuele Bompan che firma anche questo pezzo sul peso nelle urne delle scelte in materia di politica ambientale. O l'analisi di un politologo di fama internazionale come Francis Fukuyama. E quella sul peso delle minoranze. Ci siamo interrogati sulle modalità del voto e ora sulla politica estera. Un viaggio che come tutti i viaggi è fatto di incontri e di scoperte che si aggiungono chilometro dopo chilometro. Ad ogni tappa un arricchimento.

Quattro anni fa alla Duma si erano organizzate feste con champagne per la vittoria di Donald Trump, e anche se il capo del Cremlino almeno in pubblico ha sempre mostrato una notevole cautela, rispetto almeno all'entusiasmo di molti suoi sottoposti, era evidente che la leadership russa contasse di trarre dei vantaggi dalla rottura antisistema a Washington. Del resto, Mosca ci aveva scommesso, con la diplomazia e con gli hacker, e il Russiagate, che per poco non è costato a Trump l'impeachment, dimostra che nel 2016 il Cremlino aveva il suo candidato alle elezioni americane, anche se non sperava molto nella sua vittoria.

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Quattro anni dopo, la sensazione che si percepisce a Mosca è quella di una bruciante delusione, che il presidente del comitato per gli affari internazionali della Duma, Leonid Slutsky, ha a un certo punto riassunto così: «Avevamo pensato che Trump fosse dei nostri, e abbiamo sbagliato. Era innanzitutto un americano».

Una frase rivelatoria anche di una certa ingenuità nella visione del mondo dei russi, da fortezza assediata, che però è utile per capire perché l'antiamericanismo feroce della propaganda ufficiale di Mosca – diventato ormai da quasi dieci anni il perno principale della retorica – non si estenda anche al presidente degli Stati Uniti. Quanto Obama era stato sbeffeggiato al limite dell'offensivo (la deputata del partito Russia Unita e una delle fedelissime putiniane, Irina Rodnina, aveva postato su Twitter una vignetta razzista su Barack e Michelle che sarebbe stata ritenuta insultante perfino nell'Alabama degli anni Cinquanta), tanto “The Donald” gode sempre di un trattamento di favore da parte di media e commentatori russi. Di solito viene presentato – in perfetta sintonia con come si vede lui stesso – come vittima di un “deep State” di Washington, uno che vorrebbe gettarsi tra le braccia della Russia, abolire ogni sanzione e riconoscere l'annessione della Crimea, ma viene imbrigliato dal Congresso, dai servizi segreti e dalle lobby militari.

Una visione che forse, paradossalmente, non è troppo lontana dal vero, vista la reticenza del presidente americano a criticare Vladimir Putin in pubblico, e il suo desiderio di incontrarlo, contro le raccomandazioni dei suoi consiglieri, nella speranza di riuscire a strappargli un'intesa tutta basata sul feeling personale, di giocarsi una partita da veri uomini, “struck a deal”, come ama dire Trump, convinto della propria bravura di negoziatore. Di “deal” con la Russia, però, in quattro anni, non ne è stato fatto nemmeno uno, anzi, si sono rotti quasi tutti gli accordi esistenti, si sono presi a martellate tutti i pilastri delle relazioni bilaterali e dell'architettura della sicurezza globale. Trump è uscito – dando la colpa ai russi, che in effetti lo stavano violando sottobanco – dall'accordo INF sul bando dei missili nucleari a corto e medio raggio, quelli che puntavano sull'Europa, quelli la cui installazione a Comiso era stata una delle battaglie degli anni Ottanta. E il 5 febbraio del 2021 scade l'accordo Start che limita gli arsenali nucleari strategici di Mosca e Washington, l'ultimo filo al quale era appesa la sicurezza atomica, che presto tornerà a un livello precedente alla Perestrojka.

Il Cremlino aveva chiesto con insistenza di riaprire un negoziato sul rinnovo dell'accordo, ma ormai è sicuro che dovrà occuparsene la nuova presidenza Usa, creando un pericoloso vuoto giuridico. La vicenda dello Start è sintomatica della gestione trumpiana: dopo numerosi rinvii che mostravano una fondamentale indifferenza verso il dossier (l'allergia del presidente americano verso qualunque accordo è nota, e lo Start, firmato nel 2010, era finito nel cestino dei «pessimi trattati firmati da Obama»), Washington ha proposto a Mosca di ristipularlo, a condizione che Putin convincesse ad aderire anche Xi Jinping.

La palese dimostrazione di come ormai l'amministrazione consideri il suo vero avversario globale la Cina, nonostante non abbia ancora arsenali nucleari cospicui, non poteva non offendere Putin, che comunque non aveva nessuno strumento per convincere Pechino ad aderire. Quando è diventato chiaro che Putin non avrebbe fatto il negoziatore per conto di Trump, da Washington è partita un'altra raffica di nuove richieste americane,tra cui controlli aumentati sugli arsenali russi e inclusione nell'accordo di armi tattiche e non solo strategiche.

Il negoziatore americano Marshall Billingslea è stato molto esplicito: «I russi devono salire a bordo adesso, altrimenti dopo la vittoria di Trump a novembre il prezzo può diventare più alto», ha detto a fine settembre, ottenendo una reazione prevedibilmente stizzita di Mosca, che ora accusa gli americani di aver tergiversato intenzionalmente per far saltare l'accordo. Del quale il Cremlino ha disperatamente bisogno: non solo per avere una dimostrazione di essere ancora una potenza che discute alla pari con gli Stati Uniti, ma anche per mantenere quel limite all'aumento degli arsenali nucleari che, in caso di scadenza dell'accordo, gli americani saranno in grado di superare rapidamente, lasciando indietro i russi, privi dei mezzi – economici e tecnologici come politici – per stare al passo in una corsa agli armamenti.

Putin ha ragione a constatare amaramente che le relazioni tra Russia e America non sono mai state peggiori, tra la raffica di sanzioni americane, gli scontri in Siria tra russi e americani – o almeno tra i loro alleati –, l'assenza di qualunque contatto e scambio commerciale o culturale e l'offensiva di Trump per costringere l'Europa a consumare il gas liquido americano invece di quello dei gasdotti russi. A un certo punto, il presidente russo ha confessato di stare quasi rimpiangendo i tempi di Obama. Questo non vuol dire certo che tifi per Joe Biden.

La tradizionale idea russa che con i pragmatici repubblicani ci si intenda meglio che con i democratici troppo attenti ai diritti umani e alle libertà, nel caso di Biden si sovrappone a un conflitto personale sull'Ucraina – al centro delle accuse di impeachment a Trump e principale spina nel fianco del progetto neo imperiale post sovietico del Cremlino. In caso di vittoria, il nuovo presidente democratico dovrà rapidamente dimostrare al suo Paese e a tutto il mondo che l'America è tornata.

Considerando che già nel 2014 la sua posizione sulla reazione all'annessione della Crimea era stata la più dura dell'amministrazione Obama, è plausibile che inizierà a ripristinare l'ordine mondiale a partire dalla Russia. Una vittoria di Biden significherebbe anche la perdita del faro se non altro ideologico per tutte le destre sovraniste europee, notoriamente filorusse, e si tradurrebbe probabilmente in un aiuto cospicuo della Casa Bianca ai nemici di Putin, sia a Kiev sia a Mosca, dove per quattro anni i dissidenti e gli oppositori sono stati quasi ignorati dalla leadership americana.

Una “Navalny's list” che, sul modello della lista stilata per il caso Magnitsky (nel 2012), imponga sanzioni a politici, funzionari, membri dei servizi e propagandisti russi implicati nell'avvelenamento del leader dell'opposizione antiputiniana, porterà lo scontro con Mosca a un nuovo livello d'intensità. Dall'esito del voto americano dipenderà dunque non soltanto il destino di Putin, ma anche il futuro dell'Europa Orientale. E non solo: l'isolamento internazionale in cui è sprofondato il Cremlino, unito all'inefficienza della sua economia troppo dipendente dal petrolio e dalla burocrazia corrotta, ha portato la Russia a trasformarsi sempre di più da “potenza regionale” – definizione data da Barack Obama che Putin aveva trovato a suo tempo offensiva – a satellite di Pechino.

Era stata questa orbita, per molti versi inevitabile anche per motivi geografici, a spingere un pezzo influente della destra trumpiana a voler aprire le braccia alla Russia per strapparla dalle influenze cinesi. Dopo aver teorizzato per due secoli di avere bisogno di Stati-cuscinetto sul suo versante occidentale per difendersi dall'Europa, considerata e terna nemica, la Russia si sta scoprendo a sua volta un “cuscinetto” tra la Cina e l'Occidente:un ruolo inedito e in cui non si sente a suo agio, ma dal quale non sembra avere la forza di uscire. Al presidente americano eletto a novembre toccherà, tra le varie altre incombenze globali, gestire l'imminente grande crisi del regime russo.

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