«Per completare la formazione nella cybersercurity occorre collaborare con le aziende»
Il punto sulle competenze nel settore, dove mancano 100mila figure, con la rettrice del Politecnico di Milano, Donatella Sciuto
di Simona Rossitto
4' di lettura
In Italia, nonostante gli sforzi delle università, mancano i profili di cybersecurity richiesti da aziende e istituzioni. «Non è semplice – spiega Donatella Sciuto, rettrice del Politecnico di Milano – ampliare l'offerta perché il numero di docenti in queste materie non si improvvisa». Inoltre, per lavorare nella cybersecurity, non basta studiare, serve implementare con la pratica le proprie conoscenze: «Nel campo della cybersecurity – aggiunge la rettrice nell'intervista a DigitEconomy.24, report del Sole 24 Ore Radiocor e di Digit'Ed, gruppo attivo nella formazione e nel digital learning - è molto difficile completare la formazione in aula e laboratorio; bisogna strutturare collaborazioni con le aziende per aiutarle a creare e formare le persone, con percorsi che siano nella dimensione lavorativa».
In Italia mancano ancora, come confermato dallo stesso direttore generale di Acn, Roberto Baldoni, circa 100mila figure nel settore della cybersecurity; le università sono pronte a fornire i nuovi profili?
Le stime mescolano profili molto diversi tra di loro che comprendono ingegneri, informatici, ma anche figure specializzate in ambito legale, manageriale. Nelle università esistono diversi percorsi che cercano di rispondere a tutte le esigenze. Al Politecnico, ad esempio, abbiamo una laura magistrale ad hoc in cybersecurity, oltre a un corso di base che frequentano tutti gli ingegneri informatici. Abbiamo anche percorsi che puntano a formare figure più innovative, che siano un mix tra tecnici, manager, legali. Ad esempio, al Politecnico c'è un corso di laurea in collaborazione con l'università Bocconi che ha l'obiettivo di formare professionisti per il mondo della protezione dei dati personali o, ad esempio, per l'organizzazione della cybersecurity nelle aziende. Certo, in generale, quelle della cybersecurity sono figure molto ricercate, ancora mancanti. Non è semplice ampliare l'offerta anche perché il numero di professori in queste materie non si improvvisa. I docenti, cioè, ci sono, ma non sono sufficienti ad ampliare la platea di studenti in modo immediato.
Quali sono le figure più ricercate, quelle più difficili da trovare nel contesto italiano?
Tutte le figure tecniche dell'informatica sono molto ricercate. Nel mondo della cybersecurity, per esempio, servono figure come quella del penetration tester che ha il compito di provare ad attaccare i sistemi per testarne la resistenza. Nel campo della formazione c'è un progetto nazionale, il Cyber Challange, un programma per i giovani dai 16 ai 24 anni, che ha l'obiettivo di identificare e attrarre la prossima generazione dei professionisti di cybersecurity, anche in collaborazione con le università. Noi partecipiamo come Politecnico di Milano, selezioniamo i ragazzi più bravi per entrare nella squadra nazionale di cybersecurity. E i mHackeroni, nazionale italiana di hacker etici, si è piazza quinta a Las Vegas, ai mondiali di cybersecurity.
Quale ruolo possono giocare le istituzioni per agevolare la nascita delle nuove, e sempre più richieste, competenze?
L'Agenzia per la cybersecurity nazionale rappresenta sicuramente un primo passo per mettere a sistema le attività e aiutare le aziende a gestire le tematiche di cybersecurity. Noi, d'altro canto, come Politecnico, siamo in collegamento con l'Agenzia e io stessa faccio parte del loro comitato scientifico che sviluppa programmi di assunzione e formazione, ma anche diffusione, disseminazione delle tematiche di cybersecurity.
Quanto è importante e come si può declinare il rapporto tra università e imprese per creare le competenze necessarie?
Le aziende chiedono profili già pronti. Nel campo della cybersecurity è molto difficile completare la formazione in aula e laboratorio; bisogna, quindi, strutturare collaborazioni con le aziende per formare le persone. Poi ci sono altri strumenti, come la Cyber Accademy, che forniscono alle aziende un luogo di incontro con gli studenti, creando un collegamento. Certo, si può sempre fare di più; si potrebbe, ad esempio, trovare il modo di formare gli studenti sugli stessi sistemi software delle aziende e, in questo caso, servirebbe la disponibilità dell'impresa a fornire il software necessario, in forma gratuita, visto che le università non possono permettersi di comprarlo.
L'arrivo di sistemi di intelligenza artificiale sempre più completi sul mercato ha messo in dubbio la validità futura di figure come il data analyst, finora molto ricercate. Saranno superata dall'AI?
La figura del data analyst richiede molte competenze statistiche e informatiche e di natura applicativa. Sono figure molto richieste e rimarranno molto richieste anche perché aiutano a valutare gli stessi sistemi di Ai e di machine learning. Occorre cioè verificare che i dati non siano bias, ma siano invece rappresentativi.
Secondo un rapporto Istat del 2021, 16 donne su 100 scelgono una disciplina Stem contro il 35% dei colleghi uomini. Riscontra passi avanti?
I miglioramenti sono lenti, ma ci sono. Avere il dominio tecnologico nell'ambito dell'informatica consente di avere un impatto anche su tantissime componenti della vita di oggi; questa percezione manca ancora un po' e tale carenza pesa nella scelta dell'università. Inoltre, scontiamo, nel caso delle donne, un pregiudizio storico e culturale secondo il quale il mondo dell'ingegneria non è un mondo per donne.
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