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Per i giovani la priorità è l'educazione

Le misure repressive sono una sconfitta, entrano in scena quando il disagio ha già prodotto i suoi effetti negativi. Bisogna prevenire formando attorno a noi, nella vita di tutti i giorni, un clima, una comunità educante

di Camillo Losana

4' di lettura

Sono stato giudice al Tribunale per i minorenni di Torino negli anni 70. Da tempo in pensione mi ero proposto di non esprimermi più su argomenti riguardanti i minori. Sono vecchio e non sono più a diretto contatto con i problemi dei ragazzi, e con il loro disagio.

Tuttavia la realtà dei giovani di oggi mi sembra riproporre con forza considerazioni che già facevamo 50 anni fa.

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Era il decennio delle grandi riforme riguardanti i diritti personali e relazionali. Ricordo solo la riforma del diritto di famiglia, la legge sul divorzio, quella sulla interruzione della gravidanza; quelle sull'adozione (ma ce ne sono tante altre). E poi la nascita dei servizi socio-assistenziali del territorio, con tutte le prospettive concrete di vicinanza e partecipazione tra cittadini e istituzioni. Noi eravamo dei giudici e non dei legislatori: ma cercammo di far nostra, e di promuovere, la cultura dei diritti del minore. Primo fra tutti, e comprensivo di altri diritti, quello all'educazione. Intesa questa come il complesso degli apporti (famiglie adeguate, scuola, accoglienza senza discriminazioni, sanità) necessari a promuovere le potenzialità del soggetto, verso uno sviluppo sereno e armonioso della sua specifica personalità.

Fu un decennio che, nonostante il dramma del terrorismo, ricordo come ricco di grandi speranze.

Speravamo che i grandi problemi legati al disagio giovanile potessero, con il tempo, con la cultura,  con le nuove leggi, con adeguati strumenti amministrativi, almeno ridimensionarsi e ridurre il loro costo sociale in termini di disagio, sofferenza, insicurezza, violazione o non riconoscimento di diritti fondamentali.

A distanza di 50 anni mi sembra che la situazione sia addirittura peggiorata. La violenza dei ragazzi, sempre più “gratuita” cioè immotivata, occupa molte pagine dei giornali, e preoccupa. Le istituzioni intervengono con misure repressive; e con la severità penale: che in questo caso è l'indice concreto della sconfitta dell'educazione; della nostra sconfitta.

Quante speranze deluse!

E così mi pare di dover ripetere ciò che tante volte mi era successo di dire o scrivere.

I ragazzi “nel vuoto” sono vittime delle pulsioni primordiali. E sono preda del “primo occupante” (delinquenza organizzata, suggestioni ad arte provocate da chi ne ha interesse: persone che non sono di certo al servizio di un equilibrato percorso educativo). Tanto più poi quando il contesto non li aiuta a immaginare traguardi positivi, ma li suggestiona verso la sciatteria, il non rispetto degli altri, l'egocentrismo come unico orizzonte di vita. E oggi mi pare che questo “vuoto” esista più che mai. La percentuale di giovani “neet” cioè che non lavorano e non vanno a scuola, è enorme. Si tratta di una situazione che dovrebbe preoccupare moltissimo. Le famiglie non sempre (anzi, forse, sempre meno) sanno trasmettere dei valori. E così automaticamente vengono trasmessi dei contro-valori. Né si può ribaltare sempre tutto sulla scuola. Che è a sua volta in difficoltà e non può essere l'unica “agenzia educativa”.

A suo tempo noi avevamo formulato uno slogan. Il verbo da usare con i ragazzi non è “chiudere” ma “chiedere”. Le chiusure (in carcere, in luoghi “separati”, attraverso divieti inutili) non sono mai educative. Il chiedere invece impegno (cose belle e utili da realizzare, ruoli da onorare, traguardi positivi da raggiungere, servizi e collaborazione da offrire, rinunce in vista di un bene maggiore) esalta l'autostima, attribuisce un ruolo, indica un percorso e una speranza. E i ragazzi, se ben sollecitati, o anche se saggiamente “costretti”, sanno rispondere. Sanno “dare”.

Infatti i ragazzi stessi sono alla ricerca di occasioni di impegno. Quasi tutti sono potenzialmente meravigliosi. Basta osservare il loro generoso accorrere quanto c' è un evento catastrofico. Ma bisogna aspettare il dramma per dare un ruolo ai ragazzi? E' nel quotidiano che occorre trovare, e dare, occasioni di impegno. A cominciare ovviamente dal lavoro.

Ricordo di avere suggerito un servizio civile obbligatorio, a livello europeo; tale da coinvolgere per un certo tempo tutti i ragazzi e le ragazze. Un servizio civile serio, impegnativo, con animatori esperti; un servizio coinvolgente ed entusiasmante. Chiedemmo interventi per supportare ambienti educativi del tipo “oratori”, magari laici, o associazioni con progetti educativi validi; o iniziative tipo “estate ragazzi”. Chiedemmo corsi per educatori di strada; o comunque di promozione dell'educazione civile.

Ci sono proposte concrete al riguardo? Questi suggerimenti sono andati avanti? Vi sono progetti o iniziative?

Anche l'attenzione alle comunità e al carcere minorile è doverosa (strutture ed educatori dovrebbero essere adeguati in competenza e numero). Però le comunità e tanto più il carcere entrano in scena quando il disagio ha già prodotto i suoi effetti negativi. Qui mi interessa parlare degli interventi preventivi che possano evitare e contenere il disagio dei ragazzi.

Infine voglio ricordare quanto qualche illuminato giurista scrisse anni fa. Occorre cercare di formare attorno a noi, nella vita di tutti i giorni, un clima, una comunità educante. Ove i rapporti personali siano improntati al rispetto, al dialogo, alla collaborazione.

I ragazzi respirano l'aria che li circonda; imitano i modelli affascinanti e credibili.

Ex presidente del Tribunale per i Minorenni di Torino

Riproduzione riservata ©

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