ISTITUZIONI AL RINNOVO

Per l’Europa campagna elettorale tutta politica

di Sergio Fabbrini

4' di lettura

Mercoledì scorso è iniziata ufficialmente la campagna per l’elezione del Parlamento europeo del prossimo maggio 2019. Nel giro di poche ore, il Parlamento europeo ha deciso di denunciare il governo ungherese di Viktor Orban per violazione dello stato di diritto (avviando la relativa procedura d’infrazione), ha approvato la contrastata direttiva sulla riforma e la protezione del copyright (che mira a regolare la circolazione delle informazioni nel web) e ha discusso la relazione annuale sullo “Stato dell’Unione” tenuta dal presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker. Se qualcuno pensava che l’Unione europea (Ue) si fosse addormentata, dovrà ricredersi. L’Ue è divisa, non già anestetizzata. È divisa tra stati, oltre che tra e all’interno dei partiti, sulla sua identità (costituzionale ed economica). L’Europa si è politicizzata. L’integrazione non è il più il processo silenzioso dei primi decenni del dopo-guerra. Da quando il Parlamento europeo è eletto direttamente (1979), non era mai successo che la sua elezione fosse divenuta così importante, come ora, per il futuro dell’Europa. Vediamo meglio.

Il voto del Parlamento europeo contro il governo ungherese è un fatto di grande importanza politica. È ovvio che quel voto non basterà a fermare la degenerazione illiberale dell’Ungheria. Tuttavia, esso porta alla superficie dell’opinione pubblica europea una divisione che era rimasta sotto l’acqua delle tensioni tra i governi nazionali.

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Dietro l’alibi o la pressione della crisi migratoria, buona parte dei Paesi dell’Europa dell’est ha reso esplicita la sua opposizione al modello sovranazionale perseguito dall’Ue. A quest’ultimo è stata opposta una visione sovranista dell’integrazione, secondo la quale essa non deve giungere a mettere in discussione le rispettive sovranità nazionali. Sovranità nazionali che, a loro volta, debbono potersi organizzare secondo le proprie tradizioni costituzionali. Tutte legittime, anche se, come è il caso di Paesi come l’Ungheria, esse risultano poco sensibili ai principi liberali dello stato di diritto. Tant’è che, in nome della propria specifica tradizione, in Ungheria si è cercato di affermare il principio (illiberale) che la rule of law non debba limitare l’esercizio del potere politico. Naturalmente, tale visione illiberale è condivisa anche da leader e partiti delle stesse democrazie occidentali. Basti pensare al nostro ministro dell’Interno, quando afferma che non può essere «indagato da giudici che non sono stati eletti mentre lui è stato votato da milioni di italiani». Il voto del Parlamento europeo ha affermato che tali tradizioni costituzionali non sono accettabili. Non solo perché senza il comune rispetto della rule of law non può funzionare un mercato unico transnazionale, ma soprattutto perché l’Ue è una comunità legale basata su condivisi valori. È singolare che la decisione del Parlamento europeo sia stata contrastata dai parlamentari europei di Forza Italia (che pure fanno parte di un partito che ha fondato quella comunità legale), oltre che da quelli della Lega sovranista (che in quella comunità però non si riconoscono). E se, in questo voto, i parlamentari europei dei Cinque Stelle non hanno votato come quelli della Lega, essi si sono invece allineati a questi ultimi nel voto contro la decisione del Parlamento europeo di proteggere il copyright. Una decisione, quella sul copyright, che esprime l’idea di un mercato aperto ma regolato, idea che è alla base dell’identità economica dell’Ue. È davvero singolare che i due partiti del governo italiano siano contrari alla regolamentazione di Internet in Europa, mentre discutono di nazionalizzazioni in Italia.

A un’Europa attraversata da fratture profonde sulla propria identità costituzionale ed economica, la relazione del presidente Juncker ha detto poco o nulla. Certamente, Juncker ha fatto bene a ricordare i grandi risultati raggiunti grazie all’Europa (nella promozione della crescita, nella protezione dell’ambiente, nel contrasto al terrorismo, nel sostegno alla ricerca, nella difesa delle libertà). Tuttavia, ricordare tutto ciò non è più sufficiente. Ad esempio, sulla ripresa economica, non basta ricordare (come ha fatto Juncker) che l’Europa ha raggiunto il più alto livello di occupazione della sua storia recente. Oppure che il programma di investimenti promosso dalla sua Commissione ha aiutato i Paesi europei a uscire dalla crisi. Bisognerebbe anche riconoscere che tale crescita continua a essere ineguale, non solamente per responsabilità dei governi nazionali. Domandandosi quindi se sia sostenibile un’integrazione di mercato basata su economie asimmetriche. Ad esempio, sulla politica migratoria, non basta ricordare (come ha fatto Juncker) che l’Europa è riuscita a contenere i flussi migratori, riducendo sensibilmente gli arrivi (del 97% nel Mediterraneo orientale e dell’80% nel Mediterraneo centrale). Oppure che la Commissione si è impegnata a rafforzare l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera con l’assunzione di nuovi 10.000 agenti. Bisognerebbe anche riconoscere che la politica migratoria continua ad avere conseguenze ineguali, penalizzando alcuni Paesi e non altri. Domandandosi quindi se sia sostenibile una politica migratoria che non vuole intaccare gli egoismi nazionali nella gestione delle loro sovranità territoriali.

Di fronte a tali divisioni, è poco plausibile continuare a sostenere (come ha fatto Juncker) che «insieme possiamo piantare i semi di un’Europa più unita e sovrana», senza dire come e cosa deve essere quest’ultima. Se gli europeisti andranno alle elezioni del maggio prossimo con tale retorica, allora l’auspicio fatto dal nostro ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro che «l’establishment Ue sarà spazzato via da elezioni storiche» (Corriere della Sera del 13 agosto scorso) potrebbe realizzarsi.

Quando la frattura politica riguarda l’identità costituzionale ed economica dell’Ue, non si può mettere la testa sotto la sabbia. Insomma, occorre dotarsi di una visione costruttiva dell’Europa, se si vuole contrastare le pulsioni distruttive del sovranismo.

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