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C’è anche l’oro tra i protagonisti del 2019, annata da record per i mercati finanziari: il lingotto si avvia ad archiviare la migliore performance dal 2010, con un rialzo che supera il 18% e quotazioni oltre 1.510 dollari l’oncia, sui massimi da inizio novembre. Un rally natalizio, favorito dai volumi di scambio sottili tipici dei periodi di festività e forse influenzato anche da esigenze di riordino dei portafogli a fine esercizio, ma che comunque sta esaltando i fans del metallo prezioso.
L’oro – bene rifugio, difensivo per ecellenza – si sta apprezzando (e addirittura è riuscito a rompere la resistenza dei 1.500 dollari l’oncia) in una fase in cui anche corrono a livelli record anche i listini azionari e tutti i cosiddetti risk asset, comprese le materie prime.
Il petrolio Brent scambia oltre 68 dollari al barile, a livelli che non toccava da tre mesi. Il rame – il Doctor Copper che misura lo stato di salute dell’economia globale – è salito ai massimi da otto mesi, raggiungendo 6.266 dollari per tonnellata al London Metal Exchange.
Rally davvero anomalo quello dell’oro, che la (relativa) debolezza del dollaro probabilmente non basta a spiegare, e che trova gli analisti divisi sulle prospettive per il 2020.
Tra le grandi banche qualcuna è pessimista, come JP Morgan Chase, che punta su futuri ribassi del metallo, convinta che le condizioni dell’economia siano avviate a migliorare, grazie anche alla tregua sui dazi Usa- Cina: di recente sono arrivati dati macro incoraggianti e le banche centrali sembrano orientate a mantenersi colombe in materia di politica monetaria.
Sul fronte opposto c’è chi pensa che l’oro abbia ancora buoni motivi per correre: sul futuro incombono troppe incertezze, sulle relazioni Usa-Cina, sulle modalità della Brexit, sugli esiti delle crescenti tensioni geopolitiche. Gli esperti di Goldman Sachs e di Ubs sono convinti che nel 2020 per l’oro cadrà anche la barriera dei 1.600 dollari.
A sostenere le quotazioni del metallo ci sono anche fattori fondamentali. L’accumulo di riserve auree da parte delle banche centrali ha rallentato il ritmo, ma prosegue, con acquisti che non si vedevano da oltre cinquant’anni. E presto anche il fondo sovrano russo, il Rdif, dovrebbe mettersi a comprare oro (oltre che euro e reminbi), nell’ambito di un processo di de-dollarizzazione che Mosca ha già avviato da tempo, con determinazione maggiore rispetto a quella finora dimostrata dalla Cina.
Il piano è ufficiale ed era già stato descritto oltre un mese fa – sia pure solo a grandi linee – dal viceministro delle Finanze russo,Vladimir Kolychev. La vigilia di Natale il titolare del dicastero, Anton Siluanov, è tornato alla carica affermando di favorire la diversificazione in oro e altri metalli preziosi (di cui la Russia è uno dei maggiori produttori al mondo) come investimento «più sostenibile nel lungo termine» rispetto ad altri asset.
Il fondo sovrano russo ha un patrimonio di circa 125 miliardi di dollari, di cui 45 miliardi denominati nella valuta Usa, aveva indicato Kolychev a metà novembre, spiegando che l’obiettivo del Cremlino è ridurre la quota del biglietto verde in linea con la diversificazione operata dalla banca centrale.
Il governo sta «esaminando diverse valute di riserva che rispondono agli standard Fmi, inclusi il reminbi e le valute di altri Paesi», ma nel mirino ovviamente c’è anche l’oro, di cui la banca centrale russa ha accumulato 2.252,1 tonnellate e che oggi costituisce oltre un quinto delle sue riserve totali.
Mosca in meno di due anni ha invece ridotto il possesso di titoli di Stato Usa da 96 a 8 miliardi di dollari e dimezzato la quota di riserve in dollari, portandola al 22%. La quota in euro è salita dal 22 al 32%, quella in reminbi dal 5 al 15%. La diversificazione per il fondo sovrano non sarà necessariamente la stessa, ma Kolychev afferma che sarà «simile».
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