la nostra estate / 3

Per quest’anno non cambiare

Complici i 7.500 chilometri di coste, il nostro cinema – da Rossellini a Paolo Virzì, passando per Dino Risi, i Vanzina e persino i cosiddetti “musicarelli” – ha quasi sempre affidato il racconto delle vacanze alla vita di mare, arricchendolo a piacere di incomunicabilità, screzi sociali ed edonismo. Anche grazie a queste pellicole, generazioni di stranieri si sono innamorate del nostro Paese, eleggendolo a meta del cuore. Quest'anno tocca a noi (ri)scoprirlo

di Mattia Carzaniga

4' di lettura

«Ho riflettuto. Sarà meglio che io parta immediatamente. Sembra che tu ti trovi bene qui, restaci fin quando non si è venduta la villa. Io torno in Inghilterra in aereo». Viaggio in Italia di Roberto Rossellini non è il racconto della separazione (forse scampata) di una coppia d'inglesi. È l'opera cinematografica che sancisce il definitivo innamoramento degli stranieri per la villeggiatura qui da noi. Da prendersi pure alla lettera: Ingrid Bergman, sontuosa protagonista del film e scandalosa compagna del regista, dal nostro Paese non se ne andrà più via (o quasi). La seduzione non è più tra gli uomini e le donne: la esercita un luogo – meglio se intercettato nella bella stagione – che strega, irretisce, conquista, forse abbandona.

Liricamente: l'amore per e con l'Italia è da melodramma classico. Rossellini, e non è certamente un caso, intitola del resto il suo film più venerato da critici e colleghi (nella stessa misura in cui è ancora largamente incompreso dagli spettatori) come l'opera di Goethe, il grande romantico. (E Martin Scorsese, in omaggio a Rossellini, avrebbe a sua volta intitolato il suo documentario sul nostro cinema Il mio viaggio in Italia: ma questa è un'altra storia, o forse no).

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Da Rossellini a Paolo Virzì, passando per Dino Risi e i Vanzina, l'estate del cinema italiano

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Si diceva: Ingrid Bergman e George Sanders, marito assente, si spiaggiano tra Napoli, Pompei, Capri, fino alla processione nei vicoli di Maiori, costiera amalfitana, che invece di dividerli per sempre li farà forse ritrovare. Tra gli anni Cinquanta e i primi Sessanta, l'estate italiana è la terra dell'incomunicabilità, che per collisione veniva meglio nel chiasso del Sud (e isole). L'avventura di Michelangelo Antonioni, primo capitolo della gloriosa e parodiata trilogia dell'incomunicabilità, fa di Lisca Bianca, il più sperduto roccione delle Eolie, il teatro di esistenzialismi più moderni del loro tempo.

«Ma come fate a discutere con questo caldo?», chiede una delle amiche del gruppo. E allora zitti, a contemplare la natura, e ancora di più se stessi. Sparita Anna/Lea Massari, a un certo punto chissà dov'è pure Sandro/Gabriele Ferzetti: «Sarà in giardino a prendere una boccata d'aria. A vivere l'alba», dice un'altra amica. Al Festival di Cannes di sessant'anni fa, L'avventura non vince la Palma d'Oro (andò a La dolce vita, a proposito di adescamenti turistici). Ma fa ugualmente scoprire al mondo un'altra Italia. Fortuna che gli autoctoni, nello stesso decennio-Boom, codificano sullo schermo anche le loro vacanze piccolo-borghesi: dai musicarelli con i cantanti del pop che fanno contente le Pro Loco ai lidi in Liguria (il dimenticato La spiaggia di Alberto Lattuada, 1954); e più giù sul litorale toscano, che affresca il benessere e il ricambio generazionale: ovviamente Il sorpasso di Dino Risi, ma pure il sottovalutato La voglia matta di Luciano Salce, usciti entrambi nel 1962. Gli stessi anni versiliani che sarebbero tornati nell'83 nel Sapore di mare vanziniano, col Forte – l'articolo è obbligatorio – come avamposto ideale da cui raccontare l'Italia craxiana, ma con la nostalgia di vent'anni prima. «Per quest'anno, non cambiare: vengo al mare per ciulare!», canta il bagnino Jerry Calà.

Sarà colpa dei 7.500 chilometri di costa, ma non è un caso che il racconto del nostro costume (in tutti i sensi) avvenga quasi sempre sul bagnasciuga. Altro che plexiglass: le classi sociali, economiche e culturali si devono fisicamente incontrare, per poi entrare in conflitto. La guerra dei sessi (e dei soldi) di Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto di Lina Wertmüller, anno 1974, ha come sfondo un generico Mar Mediterraneo, ma sappiamo che è la Sardegna. Mariangela Melato altoborghese capitalista e Giancarlo Giannini marinaio comunista sono la fotografia che rivedremo per tutti gli anni a venire, fino all'exploit tra proto-berluscones e sinistra già anacronistica in Ferie d'agosto di Paolo Virzì, 1996, con la laziale Ventotene, insieme snob e cafonal, teatro dell'eterna lotta.

Nel mezzo, l'estate filmica si sposta sulla Riviera romagnola, ormai non più quella felliniana-vitellona, ma l'unico scenario possibile per i nostri sogni wannabe-reaganiani (e post): Rimini Rimini, Abbronzatissimi, e sequel/spin-off assortiti. Finché non arriva il bisogno di inventarsi nuovi scenari, per noialtri e per i forestieri: dal Chiantishire degli inglesi e degli americani (Io ballo da sola di Bertolucci, 1996) alla Puglia – no: l'Apulia Film Commission – in cui da un certo momento in poi viene ambientato tutto, fino alla consacrazione con Mine vaganti di Ferzan Özpetek (2010). Vi sembra un salto temporale azzardato? Nient'affatto: se negli anni Novanta Sting comprava casa in Toscana, negli anni Dieci di questo secolo Justin Timberlake si è sposato nel Brindisino.

L'ultima estate cine-italiana è il vero capolavoro di chilometro zero che s'allarga al mondo. Da luogo qualunque sulla mappa, la Bassa padana diventa lo sfondo (im)possibile della villeggiatura definitiva, e fino a quel momento inespugnata. «Somewhere in Northern Italy»: con questo cartello iniziale Chiamami col tuo nome convince gente del New Jersey a fare le valigie per Crema e dintorni.

Se ad agosto sarà ancora vietato esplorare luoghi lontani, potremo sempre trasferirci in una villa di Moscazzano. O restare direttamente nella città vuota: ce l'ha insegnato Nanni Moretti in Caro diario, che anche quella può essere un'estate bellissima

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