La governance dei fondi europei

Perché anche le Regioni devono collaborare ai programmi del Pnrr

L’impostazione che sta emergendo dai lavori in corso è quella di un asse Stato-comuni che taglia fuori le regioni, ove il primo decide e i secondi dovrebbero attuare i programmi. Anche i tour di presentazione in corso in diverse città, tra ministri e sindaci, sembrano confermarlo

di Pierluigi Mantini

(RafMaster - stock.adobe.com)

3' di lettura

Nell’audizione alla Camera, Davide Caparini, coordinatore delle politiche di bilancio della Conferenza delle regioni è stato chiaro: «Le Regioni sono tagliate fuori dal Pnrr».

È il primo serio grido di allarme, ma il tema non andrebbe sottovalutato anche perché non può dirsi neppure definita la linea del governo sulla proposta Fedriga sul “super green pass”. Ma andiamo con ordine.

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Mai l’Italia ha conosciuto, dal secondo dopoguerra, una stagione così intensa di programmi e progetti pubblici, sorretta da risorse reali, da un rigido cronoprogramma e da una diffusa consapevolezza delle semplificazioni necessarie.Un’occasione davvero straordinaria, una sfida entusiasmante per cambiare il Paese e far correre l’economia nella direzione di un futuro sostenibile. Una sfida da condurre insieme, come “squadra Italia”.

Le regioni italiane hanno sin qui collaborato all’elaborazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) senza sollevare rivendicazioni di competenze ai sensi dell’ormai noto titolo quinto della costituzione.

Si tratta di un risultato apprezzabile, di grande rilievo, quasi impensabile solo fino a pochi mesi fa.

La lunga stagione dei conflitti sul federalismo e il regionalismo differenziato sembra ora svanita di incanto, smentendo il pronostico di quanti prevedevano che proprio la querelle Stato-Regioni sulle competenze avrebbe rappresentato il freno e il principale ostacolo. E invece si è affermata la logica della collaborazione e della responsabilità, non quella delle sterili polemiche. Un merito occorre riconoscere al ministro per gli Affari regionali Maria Stella Gelmini che ha svolto una delicata e difficile opera di mediazione. Ma la musica potrebbe cambiare e non mancano i segnali.

L’impostazione che sta emergendo dai lavori in corso è quella di un asse Stato-comuni che taglia fuori le regioni, ove il primo decide e i secondi dovrebbero attuare i programmi. Anche i tour di presentazione in corso in diverse città, tra ministri e sindaci, sembrano confermarlo.

A parte l’illusione di individuare nei Comuni i soggetti attuatori (tutti e 8mila?) di complessi programmi di investimenti, non possono però essere trascurati due punti essenziali.

1) Le regioni esercitano fondamentali funzioni di programmazione nelle stesse materie della transizione ecologica e digitale e dello sviluppo sostenibile alla base delle 6 missioni e 16 componenti del Pnrr. Su molte delle azioni previste insistono programmi regionali già finanziati tramite fondi strutturali europei e attraverso i contratti istituzionali di sviluppo e la regola europea impone il divieto di doppio finanziamento. Se si procede senza intese sui programmi il rischio della bocciatura in sede europea è concreto.

2) Gli investimenti devono essere “messi a terra” ossia calati nella dimensione di distretti territoriali, di dinamiche reali socioeconomiche, che non sono materia dei singoli Comuni o dello Stato. Già, perché per ridurre le emissioni di CO2, far crescere le energie alternative, le infrastrutture e le imprese innovative occorrono anche le Regioni.

Si dovrebbe anche aggiungere che la legge prevede che almeno il 40% delle risorse del Pnrr deve essere investito nelle Regioni del meridione e che sempre la legge prevede per i compiti dell’attuazione un ampio (e inevitabile) ricorso alle società pubbliche. Solo a quelle statali, già gravate da mille commesse, o anche a quelle regionali?

Ora che i dossier delle 6 missioni sono più consolidati e maturi il confronto con le Regioni e le autonomie speciali dovrebbe dunque essere intensificato.

Il ministro Gelmini ha varato una policy intitolata “ progetti bandiera”, ossia la possibilità per le Regioni di proporre un progetto di “priorità strategica”, secondo la definizione del decreto legge ora in conversione alla Camera.

Ma anche questi “progetti bandiera”, per essere collocati nelle missioni nazionali, hanno bisogno di dialogo e di intese con le amministrazioni centrali competenti. La legge sulla governance del Pnrr prevede che alle sedute della cabina di regia a palazzo Chigi «partecipano i Presidenti delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano quando sono esaminate questioni di competenza di una singola regione o provincia autonoma, ovvero il Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, quando sono esaminate questioni che riguardano più regioni o province autonome» e che in tali casi essa è presieduta dal ministro degli Affari regionali. Ma quante volte ciò è realmente avvenuto? E perché nella segreteria tecnica, organo di attuazione assai importante, non siedono anche delegati delle Regioni? Il Piano di ripresa e resilienza deve essere nazionale, non statale.

È già un gran risultato aver sopito i conflitti sulle rivendicazioni di competenze, ma la collaborazione sui programmi deve esserci. Non è difficile immaginare che già nei prossimi giorni il governo terrà conto del noto adagio secondo cui “da soli si va più veloci ma insieme si va più lontano”.

(*) Consigliere giuridico del Commissario straordinario ricostruzione sisma 2016

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