Interventi

Perché arginare lo Stato imprenditore

di Piero Formica

3' di lettura


Il coronavirus si è manifestato nel tempo delle disuguaglianze crescenti e del corrispettivo aumento dell’indebitamento delle famiglie. Si è gonfiato il risparmio dei ricchi e si è appesantito il cumulo dei debiti familiari. Lo scorso gennaio, Oxfam, la confederazione internazionale delle organizzazioni non profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale, ha mostrato uno scenario allarmante per l’Italia. L’1% più ricco della popolazione possiede ricchezza che supera quella complessiva del 70% degli italiani più poveri. Già nell’agosto 2018, la Cgia, l’Associazione Artigiani e Piccole Imprese Mestre, avvertiva che l’importo medio dell’indebitamento delle famiglie aveva raggiunto i 20.500 euro e i passivi complessivi i 534 miliardi. Sul da farsi è variopinto il panorama delle opinioni.

Ritenendo che Covid-19 possa innescare la più grave crisi economica dai tempi della Grande Depressione degli anni Trenta del Novecento, Martin Wolf sul «Financial Times» dello scorso 6 maggio ricorda quanto allora dichiarò Marriner Eccles. Il governatore della Federal Reserve Bank affermò che «È assolutamente impossibile per i ricchi risparmiare quanto hanno cercato di risparmiare, e salvare tutto ciò che vale la pena di salvare. Noi dobbiamo prelevare una quantità del loro surplus sufficiente per permettere ai consumatori di consumare e alle imprese di operare con profitto». Dal prelievo i ricchi ne avrebbero tratto vantaggio se si fosse creata una domanda sostenibile con un minor indebitamento delle famiglie. Che cos’altro al posto della patrimoniale? Alla trappola dell’esplosione del debito pubblico si potrebbe sfuggire, riferisce Wolf, diminuendo «l’incentivo a finanziare le imprese con il debito, piuttosto che con il capitale proprio. Il modo più ovvio per farlo è eliminare la preferenza del primo rispetto al secondo in quasi tutti i sistemi fiscali».

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È una terza via «sostituire i prestiti governativi alle imprese con l’acquisto di azioni. In effetti, con gli attuali tassi di interesse ultra bassi, i governi potrebbero creare fondi sovrani istantanei a bassissimo costo».

Sarebbe, questo, il ritorno dello stato imprenditore, per far cosa? L’amministrazione pubblica non è poliglotta, non comprende i diversi linguaggi comportamentali di una moltitudine di specie imprenditoriali che popolano il Paese. Chiediamoci: chi mai tra politici, alti burocrati ministeriali e loro consulenti avrebbe chiesto a sconosciuti come Bill Gates (Microsoft), Michael O’Leary (Ryanair) e Jeff Bezos (Amazon) la loro visione del futuro, rispettivamente, dell’industria dei computer, del trasporto aereo e delle vendite al dettaglio? Sotto la pressione esercitata dalla duplice rivoluzione, ecologica e digitale, è decisivo il ruolo delle imprese che inventano tecnologie sociali per riorganizzare il lavoro delle persone, da affiancare alle tecnologie fisiche per fabbricare cose ambientalmente sostenibili ed erogare servizi.

La cultura statale (e non solo) non vede, però, al centro della scena gli imprenditori che cambiamo lo stato dell’arte. Protagonista è il posto di lavoro. E l’innovazione è più temuta che amata, perché potrebbe distruggere anziché dare lavoro. Non è lo stato imprenditore a facilitare l’ascesa delle imprese innovative che aumentano la produttività e risolvono i problemi sociali. La burrasca di innovazioni causata dal Covid-19 sospingerà la nave Italia verso un porto sicuro se la mano pubblica irrigherà con risorse per la ricerca i campi della salute e dell’istruzione. Da una popolazione sana e dalla qualità del capitale umano delle nuove generazioni dipende il futuro dell’economia. Qualora l’intervento pubblico si riversasse a valle, nel campo dell’imprenditoria, e continuasse a trascurare, a monte, il suo impegno nella ricerca suscitatrice di innovazioni, le disuguaglianze incentiveranno il desiderio di risparmio rispetto alle opportunità di investimento.
piero.formica@gmail.com

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