Perché le banche italiane hanno perso un terzo del valore
di Alessandro Penati
3' di lettura
Dalle elezioni di marzo, le banche italiane hanno perso in media quasi un terzo del proprio valore: Intesa, -33%; UniCredit, -35%; Banco Bpm, -30%. La relazione negativa con la politica fiscale del governo è evidente, ma il canale dei titoli di Stato, detenuti massicciamente dalle banche, non basta a spiegare valutazioni così basse.
Nello stesso periodo, infatti, anche l’indice delle banche dell’Eurozona ha perso il 29%, segno che lo scontro con l’Europa sul nostro debito pubblico fa temere che la crisi degeneri diventando sistemica. Un’ipotesi suffragata dai dati: stimando il coefficiente beta (correlazione statistica) delle banche europee rispetto a variazioni dello spread italiano negli ultimi dieci anni, si nota come un aumento di 100 punti dello spread riduca in media il valore delle banche italiane del 10%, ma anche quello delle banche dell’Eurozona (in media del 9%). Dunque, il governo italiano sta esportando la crisi nei sistemi bancari dei Paesi dell’euro, con i quali dovremmo negoziare il disavanzo pubblico. Pessima strategia.
La politica fiscale italiana è un grave handicap per le banche, ma la loro valutazione soffre anche di una bassa redditività legata al declino del modello di business tradizionale, accentuato da una regolamentazione che, mossa da lodevoli intenti, ha però creato un circolo vizioso di cui non si vede l’uscita. Tranne poche eccezioni (Erste, Kbc, Bankinter), in Borsa tutte le maggiori banche dell’Eurozona trattano con un forte sconto rispetto al patrimonio netto, in media del 33% (33% Intesa; 54% UniCredit; 70% Banco Bpm). Lo sconto indica che la redditività sul capitale, in media poco sopra l’8%, non remunera adeguatamente gli azionisti per il rischio di detenere titoli fortemente ciclici: i titoli bancari infatti sono circa 30% più volatili dell’indice di mercato. La bassa redditività è figlia di una struttura di costi troppo elevata per l’attività tradizionale: si stima che nel 2019 le maggiori banche dell’Eurozona, a fronte di costi operativi per 186 miliardi, ne incasseranno solo 183 dal margine di interesse.
Per riportare le valutazioni di Borsa stabilmente sopra ai valori patrimoniali servirebbe una redditività sul capitale intorno al 12% (come le banche scandinave). Irrealistico immaginare di raggiungerla tramite una crescita esplosiva delle commissioni (appena 1,4% quella prevista per il 2019); o esclusivamente con tagli dei costi (dovrebbero comprimersi in media del 23%). L’unica strada sembrerebbe un forte aumento del margine di interesse, precluso però dalla Bce che si pensa manterrà tassi negativi o nulli per altri due anni e, in Italia, dal premio per il rischio Paese che grava sul costo della raccolta.
Infine c’è la regolamentazione che, dopo Lehman, si è focalizzata esclusivamente sull’aumento della capitalizzazione, a scapito della redditività. Così in 10 anni il Core Tier 1 per le maggiori banche nell’Eurozona è salito in media dal 7,3% al 12%. L’aumento, però, più che dalla raccolta di capitali (176 miliardi) ha origine in una massiccia riduzione degli attivi pesati per il rischio (-379 miliardi), pur in presenza di una crescita degli attivi totali di 850 miliardi. Ovvero, invece di guardare esclusivamente al conto economico, le banche sfruttano le arzigogolate regole per la ponderazione dei rischi per gonfiarsi di attività che minimizzano la richiesta di capitali da parte dei regolatori (titoli di Stato, derivati, prestiti piccole imprese, mutui). Così in 10 anni la redditività media degli attivi si è dimezzata. Ma senza redditività diventa impervio raccogliere sul mercato i maggiori capitali richiesti. Ormai è un circolo vizioso.
(Elaborazioni Quaestio Capital su dati Factset)
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