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Perché bin Salman ha bisogno (disperato) di quotare Aramco

Il collocamento sul mercato è indispensabile al principe ereditario per finanziare le riforme economiche di “Vision 2030”, rendere l’Arabia Saudita sempre meno dipendente dal greggio e cominciare mettere a segno qualche successo dopo i sospetti e le accuse legati all’omicidio Khashoggi e la guerra in Yemen

di Roberto Bongiorni

Il principe Mohammed bin Salman

5' di lettura

Non si tratta soltanto di una questione di prezzo. La quotazione in borsa del colosso energetico saudita, la Saudi Aramco, è un percorso quasi obbligato per rastrellare parte dei fondi destinati a Vision 2030. L’ambiziossimo – e costoso - piano voluto dal giovane principe reggente Mohammed Bin Salman, volto a diversificare l’economia saudita ed affrancarla dalla dipendenza del greggio, non può non passare dall’Ipo più grande della storia.

In altre parole la compagnia petrolifera più grande al mondo, capace di estrarre 10 milioni di barili di greggio ogni giorno (l’11% dell’offerta mondiale), servirà a rendere meno dipendente dal greggio un Paese che si è ritagliato la nomea di Banca mondiale del petrolio.

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La “minaccia” della rivoluzione verde sugli idrocarburi
Ci sono varie ragioni perché l’uomo più influente del Regno, conosciuto anche con l’acronimo di Mbs, vuole ostinatamente l’Ipo di Aramco in tempi brevi. La transizione energetica è già iniziata. Più passa il tempo, infatti, più il mondo intero avrà sempre meno bisogno degli idrocarburi. Insomma, la domanda di petrolio sembra destina a non crescere più forse già tra 10 anni, per poi iniziare una parabola discendente.

Il prezzo del barile ne risentirà inevitabilmente. Grazie alle sempre più diffuse politiche di risparmio energico, all’introduzione di norme ambientali più rigide in molti Paesi consumatori, e soprattutto alla rivoluzione delle auto elettriche, il processo appare irreversibile. Un terzo del petrolio consumato al mondo è infatti assorbito dal settore dell’autotrazione.

A meno di schock internazionali imprevisti, l’era delle vacche grasse vista dal 2008 al 2013, ovvero quella del petrolio saldamente sopra i 100 dollari al barile (tranne una breve parentesi), sembra tramontata. A dare il colpo di grazia era stata un’altra rivoluzione energetica: quella dello shale oil, che ha reso Stati Uniti, di gran lunga i primi consumatori di greggio al mondo, energeticamente quasi autonomi. La crisi è iniziata nel 2014, quando il prezzo del barile è crollato dai 114 dollari di giugno ai 40 dollari circa toccati nel gennaio 2015. E, tra alti e bassi continua ancora oggi (con il barile intorno ai 60 dollari, un valore indesiderabile per molti produttori). Da allora le casse del Regno non versano in una situazione felice. Soldi per finanziare il faraonico piano di trasformazione dell’economia saudita ce ne sono sempre meno. Gli investimenti stranieri divengono dunque una priorità.

Deficit in crescita e Pil stagnante: un’economia in difficoltà.
Anche per il 2020 la monarchia ha rivisto i suoi calcoli. In peggio. Le stime ufficiali indicano per il 2020 un deficit di 49,2 miliardi di dollari. La precedente stima indicava un buco di di 35 miliardi. Ciò significa che il budget arriverà al 6,5% del PIl (era al 5,9% nel 2018) anziché al 4,7% previsto precedentemente. A ciò si aggiunga che, secondo i calcoli del Fondo monetario internazionale, il PIl, al netto dell’inflazione, sarà fermo allo 0,2% quest’anno per poi salire solo al 2,2% nel prossimo. Il ministro delle Finanze Mohammed al-Jadaan ha così preferito sottolineare l’incremento del 10% degli investimenti esteri diretti. Ma la fiducia dei businessman occidentali verso Riad non sembra più quella di prima.

Bin Salman non potrà poi attingere generosamente dalle grandi riserve in valuta straniera custodite nei forzieri del Regno. Pur restando su volumi importanti, si sono ridotte sensibilmente negli ultimi anni. Appena due anni fa ammontavano all’87% del Prodotto interno lordo. Oggi sarebbero a circa il 64 per cento.

I “problemi” all’immagine di Bin Salman
D’altronde non sono stati pochi i “problemi” ”che hanno appannato l’immagine di Bin Salman. A cominciare dalla controversa maxi retata anti-corruzione, scattata il 4 novembre 2017, e culminata nell’arresto di 200 fra ministri, businessmen e principi (tra cui i 10 uomini più ricchi del mondo arabo). Questa operazione voluta da Mbs, peraltro senza pubblicare prove e senza accuse formali, somigliava più ad un colpo di mano per sbarazzarsi del dissenso interno.

Già nel 2015, quando era ministro della Difesa, Mbs è stato l’architetto e della campagna militare saudita in Yemen, scattata nel marzo 2015 contro i ribelli Houti, sostenuti dall’Iran. Quella che doveva essere una guerra rapida si è presto trasformata in una sorta di Vietnam saudita, che ha un impatto negativo anche sull’Ipo di Saudi Aramco. Nonostante i martellanti bombardamenti - tutt’altro che chirurgici - la campagna non ha sortito i risultati sperati. Ma ha largamente contribuito a fare dello Yemen la peggior crisi umanitaria del 2018.

Il misterioso e brutale assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, avvenuto nell’ottobre 2018 all’interno del consolato saudita a Istanbul, è probabilmente quello che ha più nuociuto all’immagine di Mbs. Il coinvolgimento diretto di alti membri dell’Intelligence vicini al principe e le accuse (non provate) di essere stato lui stesso il mandante, hanno provocato reazioni di indignazione e imbarazzo in diversi Paesi.

Anche l’embargo aereo, navale, e terrestre voluto da Mbs contro il Qatar ( a cui hanno aderito alcune monarchie sunnite del Golfo) non pare aver giovato alla sua immagine.

La sicurezza degli asset petroliferi sauditi
Nel frattempo un altro danno collaterale della campagna militare saudita in Yemen rischia di ripercuotersi contro Saudi Aramco. L’attacco missilistico, rivendicato dai ribelli yemeniti Houti, avvenuto in settembre contro i due più grandi impianti petroliferi del Regno (tra cui la più importante installazione per il trattamento del petrolio al mondo) , che ha bloccato la produzione nazionale del 50%, ha messo a nudo le vulnerabilità dell’apparato di sicurezza saudita sulla sua capacità di proteggere e prevenire altri attacchi in futuro. E solleva diversi dubbi sui potenziali investitori stranieri.

Vision 2030: la costosa ricetta per guarire la petrodipendenza
Vision 2030 è senz’altro un piano tanto coraggioso quanto ambizioso. Apprezzabile. E imprescindibile. Nessuno mette in dubbio che la diversificazione dell’economia sia un processo non più rinviabile. Ancora oggi greggio e gas naturale rappresentano il 50% del PIl ed oltre i l 70% delle esportazioni in valore. Troppo. Anche perchè il loro contributo all’occupazione di questo Paese caratterizzato da un robusto incremento demografico resta limitato.

Per diversificare l’economia - e creare nuovi posti di lavoro - Vision 2030 punta su energie rinnovabili, turismo, hi-tech. Gli investimenti pianificati appaiono tuttavia esorbitanti. Solo per cambiar volto alla capitale Riad sono previsti 23 miliardi. Per realizzare l’avveniristica città Neom, il polo industriale del futuro, sono stati pianificati 500 miliardi di dollari di investimenti. Se mai si farà.

In questo scenario i ricavi ottenuti dall’Ipo di Aramco sono necessari, ma rappresentano solo una parte.

Il fine di Vision 2030 è senz’altro nobile. I mezzi per ottenerlo potrebbero, però, essere insufficienti.

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