Perché sul caso Piacenza parlare solo di “mele marce” non aiuta
di Giuseppe Soda
5' di lettura
L'inquietante vicenda della caserma degli orrori di Piacenza in cui, secondo la ricostruzione dei magistrati che ha condotto agli arresti e al sequestro di una caserma, un gruppo di carabinieri commetteva gravissimi reati, ha rianimato la discussione sulle cause e sul contesto i cui si osservano comportamenti fortemente devianti.
Com'era prevedibile, questo dibattito ha assunto i connotati della querelle politica, quando sarebbe invece utile una riflessione molto più pacata, meno strumentale e fondata su una letteratura scientifica in materia molto ricca. Si confrontano due interpretazioni alternative o, per usare il linguaggio della psicologia sociale, due attribuzioni: una interna, l'altra esterna.
La prima (spiegazione disposizionale), attribuisce la causa del comportamento all'individuo e ai tratti o “disposizioni” profonde della sua personalità. Questa spiegazione è nota al grande pubblico come la teoria delle “mele marce”, come ebbe a dire l'ex segretario di Stato USA Donald Rumsfeld commentando le terribili torture perpetrate da un gruppo di soldati americani ai prigionieri del carcere di Abu Graib in Iraq.
La seconda o esterna (spiegazione situazionale) è una prospettiva più contestuale che propone di guardare al “sistema” all'interno del quale questi comportamenti emergono. Per restare nel campo dell'analogia alimentare, Phil Zimbardo, professore emerito di psicologia sociale alla Stanford University, ha proposto per questa seconda spiegazione la metafora dei “cetriolini sottaceto” i quali, sebbene nati con la loro individualità specifica (disposizioni), dopo aver passato un certo periodo nella stessa soluzione agrodolce finisco per assumere tutti, nessuno escluso, lo stesso sapore e colore.
Le mele marce sono individui o piccoli gruppi che agiscono in modo relativamente isolato, grazie a caratteristiche proprie, ben distinte da quelle dell'organizzazione che li ospita. Quando nel 2012 si scoprì che alcuni trader finanziari avevano creato una rete di connivenze allo scopo di alterare il tasso di interesse “Libor”, che svolge un ruolo cruciale nelle transazioni finanziarie globali, i leader delle grandi banche d'affari e gli esponenti principali della finanza mondiale si affrettarono a spiegare che si trattava di individui isolati, e che l'integrità del sistema finanziario non poteva essere messa in discussione da pochi individui corrotti. Per i leader delle organizzazioni coinvolte, la tesi della mela marcia è naturalmente molto tranquillizzante, poiché riconduce i comportamenti negativi o illeciti ai singoli e alle loro disposizioni e a specifici interessi verso i comportamenti devianti.
Con uno schema molto simile, temendo che l'arresto di Mario Chiesa potesse scatenare un effetto domino, Bettino Craxi lo definì un “mariuolo”, proprio con l'obiettivo di limitare a un caso individuale ciò che si scoprì successivamente essere un sistema di corruzione molto più pervasivo.
Da un'angolatura molto diversa, la spiegazione contestuale riconduce i comportamenti individuali al sistema di valori di fondo espressi dall'organizzazione a cui essi appartengono, all'assenza di controllo da parte dell'autorità legittima, alle pressioni gerarchiche dei capi e a quelle sociali del gruppo, all'aderenza verso norme tacite e alle stringenti reti sociali nei quali gli individui sono immersi. Confrontando le due spiegazioni e tornando all'esempio di tangentopoli, è stato dimostrato come la rete di relazioni tra imprenditori, funzionari pubblici, professionisti e politica che caratterizzava la tangentopoli degli anni 90 funzionasse grazie a un sistema di obbligazioni reciproche, di favori prestati e ricevuti, di appalti divisi a tavolino in una logica di alternanza. In pratica, una catena di vita o di morte che legava imprese, potere politico e burocrazia pubblica, dalla quale, una volta entrati, era impossibile uscirne.
Molti degli imprenditori e dei funzionari che hanno confessato fatti di corruzione hanno parlato di “gabbia” o di costrizione tacita a perseverare nei comportamenti e nelle logiche del sistema. Eppure, nonostante la corruzione e la concussione fossero diventate regole di funzionamento del sistema, molte persone si opposero.
Allo stesso modo, i comportamenti come quelli avvenuti nella caserma di Piacenza sono, nella gran parte dei casi, denunciati da colleghi che si ribellano. Chi ha dunque ragione? I carabinieri della stazione di Piacenza sono mele marce, o espressioni, magari estreme, di un humus culturale e organizzativo e di un contesto che ha lasciato fare, favorito o stimolato quelle azioni così riprovevoli? Per l'importanza che il rischio di delegittimazione delle forze dell'ordine ha in un paese democratico sarebbe un grave errore assumere posizioni preconcette e guidate da finalità politiche.
Qui la ricerca scientifica può aiutarci con una conclusione solo apparentemente semplice: la più verosimile spiegazione del fenomeno sta a metà tra le due interpretazioni. Sono certe condizioni contestuali a rendere più o meno fertili alcuni comportamenti che però sono realizzati da individui.
In altre parole, il contesto, specie quello sostanziale e non le regole formali, può fare da moltiplicatore verso tendenze e comportamenti individuali scorretti. Così, se non vi fosse stata una radicale trasformazione dei sistemi di incentivazione dei trader finanziari e dei valori sottostanti, e se per ragioni di rapidità ed efficienza di risposta delle decisioni non si fossero modificati i processi autorizzativi e di controllo, probabilmente il comportamento fraudolento di alcuni trader non si sarebbe potuto realizzare o sarebbe stato scoperto sul nascere.
Per usare un altro esempio, si pensi alla discussione che per anni si è avuta sul tema dei dipendenti pubblici infedeli o sui cosiddetti fannulloni. Una spiegazione quasi “antropologica” del fenomeno ha dominato la scena come se alla causa di tutto vi fosse una certa natura umana propensa all'opportunismo, al vivere sulle spalle altrui, all'ozio improduttivo invece che al lavoro. Certo, gli illeciti e le responsabilità penali conseguenti sono individuali, ma perché gli infedeli e i fannulloni si concentrano in quote significative proprio nella macchina pubblica? Il punto è che i comportamenti fraudolenti emergono certo da mele marce, ma in specifici contesti organizzativi fondati su valori e processi che ne favoriscono o non ne inibiscono la moltiplicazione.
La magistratura ha il compito di perseguire e sanzionare i comportamenti illeciti, i decisori pubblici e privati quello di progettare meccanismi organizzativi e sistemi valoriali che minimizzano il rischio di questi comportamenti.Dunque, nessuna decisione, anche quella più spregevole, è assunta in una sorta di vuoto.
Tornado alla caserma degli orrori, dalle prime analisi emerge certamente un gruppo di persone che ha agito per specifici interessi di parte, nel più totale disprezzo delle regole e dei valori che erano chiamati a tutelare. Dall'altro abbiamo anche una cultura, un sistema di reclutamento, valutazione e promozione e un insieme di meccanismi di controllo che richiedono un'analisi attentissima e la disponibilità, se si rivelasse necessario, ad un profondo cambiamento affinché fatti del genere non si ripetano o possano essere bloccati sul nascere.
Consolarsi con la teoria delle mele marce non serve soprattutto all'Arma dei Carabinieri, così come una spiegazione sistemica generalizzata non appare solo irrealistica, ma rischierebbe di condizionare sia un'analisi approfondita del problema sia le possibilità di riforma e riorganizzazione delle forze dell'ordine.
giuseppe.soda@unibocconi.it
Giuseppe Soda è Professore Ordinario
di Teoria dell'Organizzazione e Social Network Analysis
presso l'Università Bocconi
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