diritto & società

Perché eliminare la parola fallimento

di Niccolò Nisivoccia

3' di lettura

Un recente libro di Roberto Cornelli, professore associato di criminologia presso l’Università Bicocca di Milano, induce a riflettere una volta di più sui rapporti fra diritto e violenza.

Per la verità il libro di Cornelli – “La forza di polizia. Uno studio criminologico sulla violenza” (Giappichelli Editore) – si concentra in particolare sulla violenza esercitata dalle forze di polizia, e sotto questo aspetto peraltro rappresenta uno studio dotato di carica innovativa, perché, come sottolinea lo stesso Cornelli nell'introduzione, il “diritto di polizia” è quasi del tutto estraneo agli orizzonti accademici italiani (e non solo).

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Ma l’indagine poggia su un impianto solidissimo che le conferisce un respiro molto più ampio. Cornelli sa bene che concentrare l’attenzione sulla violenza esercitata dalle forze di polizia non lo esime dal fare i conti con l’enorme patrimonio di pensiero alle sue spalle, sulla violenza in generale, e ne dà atto esplicitamente: padroneggia con cura e sapienza questa eredità, e la pone a fondamento e premessa del suo ragionamento.

È lui per primo a ricordare che «non esiste una società priva di violenza» e che «interrompere il circolo della violenza sociale “insensata” in quanto disfunzionale è dunque la più alta sfida della politica fin dall’antichità, a cui anche la letteratura ha continuato a fornire il suo contributo».

Il senso più profondo delle istituzioni moderne, attraverso la regolamentazione giuridica che le esprime, risiede in effetti proprio qui: nel loro rappresentare una forma di contenimento della violenza. È la grande lezione, fra gli altri, di Walter Benjamin, René Girard ed Eligio Resta: anche se celata dietro le quinte, la violenza è presente quasi ovunque nelle forme espressive dello Stato, e semplicemente il diritto la monopolizza, ma non tanto per proteggere un giusto fine o un altro, quanto per prevenire ed escludere minacce al proprio ordine.

Quando l’ordine viene violato, il diritto reagisce a sua volta con la forza e la violenza: e potremmo addirittura arrivare a sostenere che da Beccaria in poi il dibattito ruota solo intorno al tentativo di depurare da un eccessivo arbitrio punitivo la risposta dello Stato alle violazioni del suo ordine.

Il punto di vista privilegiato di questi discorsi è il diritto penale: ed è naturale, tanto più se la violenza viene intesa, nella sua accezione più classica, come “attacco al corpo di una persona”. Ma la violenza appartiene all’orizzonte del diritto tout court, e quindi anche a quello del diritto civile.

In primo luogo anche il diritto civile riveste la funzione di regolamentare la vita e la convivenza nell’ambito delle istituzioni. Il potere dello Stato, sottolinea Carlo Ginzburg, si fonda sulla soggezione alle norme giuridiche, e le norme giuridiche comprendono l’intero ordinamento, in tutti i suoi settori. Inoltre la violenza è comunque presentissima anche nel codice civile, in quanto tale (vuoi come violenza psicologica, vuoi nella stessa accezione di violenza fisica): ad esempio quale causa di annullamento dei contratti, o quale motivo di impugnazione del matrimonio e delle disposizioni testamentarie, o quale elemento ostativo dell’usucapione.

Vale a dire: anche il codice civile assume espressamente la violenza al proprio interno, quale elemento caratterizzante di molte fattispecie, e lo fa a prescindere dalla commissione di qualunque reato.

La violenza, infine, si annida sempre anche nelle parole, che possono fare male come i gesti; e questo non può non valere a maggior ragione quando le parole sono quelle della legge, proprio per via della loro forza coercitiva. Anche da questo ulteriore punto di vista il diritto civile risulta coinvolto a pieno titolo nel discorso, tanto quanto il diritto penale: e lo dimostra, nel presente, perfino la riforma del diritto fallimentare contenuta nel Codice della crisi, se è vero che una delle principali novità del Codice è appunto lessicale e consiste nel fatto che il “fallimento” cambierà il proprio nome in “liquidazione giudiziale”. Questa novità è giustificata dal desiderio di superare, anche nel linguaggio, le implicazioni negative storicamente derivanti dal fallimento nella sua percezione soggettiva e sociale.

E non è forse lecito pensare, allora, che il legislatore abbia voluto eliminare una parola “violenta” per sostituirla con una neutrale, priva di implicazioni, quasi nel segno di quel diritto mite di cui, in un suo celebre saggio, parlava Gustavo Zagrebelsky?

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